The Bear era stata una serie brat, prima del brat (LEGGI QUI) la serie che ha cambiato se non tutto, tanto, tantissimo, anche. Partita come una serie di nicchia, ambientata nel mondo della (bassa) ristorazione, the Bear è arrivata alla terza stagione come fenomeno di costume, unica serie della recente storia televisiva che convince le persone ad abbonarsi ad una piattaforma di streaming che non gli serve, solo per vedere quella serie, Disney+. L’attesa sulla terza stagione era per certi versi surreali, dopo l’amara, ipercinetica, quasi perfetta season 2, dopo tutti gli Emmy, l’inchiostro, e gli spezzoni epici, le aspettative erano alte, alte, come una montagna. Dopo l’accoglienza tiepida oltremanica e fredda oltre oceano, anche la stampa italiana non ha risparmiato giudizi freddini. La verità è che la terza stagione è per ambizione, scrittura e perché no anche musica la migliore delle tre, un momento alto nella storia della food culture e non solo, forse possiamo anche togliere food e lasciare solo cultura, (post) moderna. Diversa forse è l’ambizione, e forse ora che gli si sono ristretti gli schermi su cui spesso guardiamo le opere, beh all’ambizione, quella vera non siamo più tanto abituati.
In questa stagione numero 3 The Bear ambisce a smarcarsi definitivamente dal kammerspiel ristorativo per farsi opera tout court. L’apertura, un episodio con un flashback, che dura un intero episodio, dal titolo indicativo, tomorrow, ci introduce nel leitmotiv dei 10 episodi: stavolta, il diner di famiglia fa sul serio, ambisce alla stella, quella stella, l’unica che conta nel cielo degli chef, che forse il cielo vero, non lo vedono quasi mai. Un flashback di quasi un’ora delle cucine stellate in cui ha cucinato, tra stress, annientamento fisico, e procedure maniacali, per poi arrivare ad un presente che sembra assomigliare, in modo sempre più sinistro a quel passato da cui lo chef Carmy sembra(va) voler fuggire. I personaggi dell’equipaggio sono sempre gli stessi, la sempre più stellare sous chef Sidney, il cugino lucidamente nevrotico, e i tanti personaggi di contorno tra cui, la superba Tina (l’episodio che la vede protagonista, meriterebbe uno spin off a sé sul sogno americano), ma questa volta, Carmy sembra sempre più solo, una sorta di capitano Acab, che invece di inseguire le sue ossessioni per mare, le insegue nel cielo pneumatico della guida rossa.
Forse The Bear a questo terzo giro di giostra ci vuole parlare proprio di questo, degli standard di eccellenza artificiali e poco umani che a volte ci troviamo ad inseguire a scapito di tutto, senza nemmeno saperne bene più il motivo. Uno chef sempre più solo che cambia il menu in modo ossessivo e che porta al collasso economico e umano chi gli sta intorno e chi crede in lui, in nome di un sogno che forse non è nemmeno un sogno, ci ricorda sempre di più un Acab dei tempi nostri senza vele e senza cannocchiale, ma con una giacca bianca e una vita distrutta, una collezione di traumi da cui vuole fuggire. Chi è stato nella ristorazione lo sa, la Stella Michelin, è più foriera di naufragi e sciagure che di gloria, e in ogni caso, molti che ci sono passati non potranno che concordare con: “A me non interessa della Michelin “I’m a Pirelli guy!”. Forse per contrasto, sono gli episodi che non parlano della cucina che non parlano del sogno di Icaro delle cucine moderne, a rimanerci di più nel cuore, perché forse ci ricordano che la vita vera, quella di chi al posto di inseguire sogni di gloria sintetici e inumani deve confrontarsi con la vita vera: essere una cinquantenne di una minoranza etnica che perde il lavoro all’improvviso (Napkins, episodio 5), e diventare madre dopo essere state figlie di una madre disfunzionale, ma che, scopriamo ci ha amato in modo incondizionato e bellissimo (Ice Cubes, episodio 8).
Forse The Bear al terzo giro, non parla di un diner ambizioso della Downtown della città del vento, ma parla di noi, di noi tutti che forse, per inseguire sogni non nostri ed obiettivi di eccellenza imposta da altri, ci dimentichiamo che la vita vera è altrove, non in quello che facciamo per vivere, ma in chi ci aspetta a casa, dopo, in chi è capace di vederci dentro, di capire cosa ci emoziona, e che forse il lavoro, tutti i lavori, affrontati in modo compulsivo sono solo modi per non affrontare il fatto che ad amare, (e a farci amare) non siamo bravi abbastanza. Per questo l’ultimo episodio dall’ambizioso titolo forever cerca di affrontare a viso aperto tutte queste questioni, e l’occasione è l’ultimo servizio di un ristorante storico di Chicago e tutto il gotha della ristorazione non solo locale presenzia, con l’abito buono, e con la lacrimuccia. Carmy ritrova uno degli chef che lo hanno formato e traumatizzato, e dopo il servizio, si finisce come spesso nella vita vera di chi questo lavoro lo ha fatto o lo fa, a casa per una di quelle cene improvvisate fuori orario verso l’alba, dove non ci sono mai abbastanza sedie, ci sono sempre le birre fredde si inventa, in modo (molto creativo) qualcosa da mangiare con quello che c’è nel frigo. Arriva vera e frizzante, la malinconica allegria di quelle notti, di quel far tardi nella casa in affitto di uno della brigata, la allegria comfort di quei piatti in cui gli avanzi diventano amore e le birre fredde, e la musica in sottofondo rendono leggeri cuore e mente, fino alle ore in cui gli uccelli iniziano a cantare.
Forse perchè, come dice la Chef che si accinge a chiudere il ristorante, nella ristorazione alla fine non ti ricordi mai dei piatti, ma sempre delle persone, e questo è il grande insegnamento di The Bear, di tutte le stagioni ma di questa in particolare, che spesso le ambizioni e i traguardi ci fanno dimenticare le persone, e che la gioia e tutti le gioie è gioia vera solo se condivisa. The Bear ci ricorda, in modo bellissimo, con una fotografia e una scrittura quelle sì da stella Michelin, che ogni volta che ci sediamo in un ristorante beh, stiamo prima di tutto incontrando persone, esseri umani la cui missione e fare stare bene gli altri, forse, il lavoro più difficile del mondo, non certo il meglio pagato, ma di certo sempre fatto da esseri umani, spesso bellissimi.