Quando assaporare un boccone vuol dire immergersi in un racconto tra storia e leggenda; ma non di quelli che cantano le gesta di qualche divinità: no, in questo caso, la vicenda è più una saga popolare, il cui contesto e i cui protagonisti sono la cornice e i personaggi di un’ordinaria quotidianità. Il che contribuisce a rendere la narrazione assai credibile, sebbene alla trama non manchino certo i contributi di fantasia. Il tutto a tessere un intreccio che ha al centro un formaggio, lo “Scoppolato di Pedona”: probabilmente il più conosciuto tra quelli tipici della Versilia, lembo della provincia di Lucca che si estende tra il Tirreno e le Apuane.
IL “ROMANZO” DELLO SCOPPOLATO
Ambientazione: l’abitato di Pedona, frazione del comune di Camaiore, poco più di duecento anime sotto il campanile della chiesa di San Jacopo. Epoca dei fatti: lo scorcio finale dell’Ottocento. Ed ecco la vicenda. Il pastore Tristano incarna l’archetipo consacrato dal proverbio “contadino, scarpe grosse e cervello fino”. Un possidente lucchese, Giovambattista Pacini, gli ha affidato un gregge di pecore, da governare per preparare del buon formaggio che il facoltoso committente possa servire a tavola per il piacere del proprio palato, per quello della sua famiglia e per quello degli eventuali ospiti. Il campagnolo, però, di soppiatto, tiene per sé una parte del latte ovino, lavorandola “in purezza” e ottenendone preziose caciotte che fa maturare a lungo in grotta; mentre al ricco cliente rifila il cacio ottenuto mischiando la parte restante della mungitura con latte di altro tipo, di vacca: buono, carità, ma diverso. Infatti il risultato non è malaccio, tuttavia non è da strapparsi i capelli; e il Pacini non manca di farlo presente: anzi, a più riprese. Al che, ogni volta, Tristano risponde porgendo le sue più “sincere” scuse e sottolinea il proprio rammarico togliendosi di testa il cappello. Indovinate quale? Eh sì, una coppola; da cui il battesimo del formaggio: ovviamente quello più buono, che il pastore non condivideva con nessuno.
IL PRESENTE E LE REGOLE DI PRODUZIONE
In effetti c’è anche un altro legame allegorico che unisce il nostro formaggio con l’immagine di un cappello sollevato e rovesciato: un riferimento che attiene alle sue modalità di servizio. Come riferisce Gabriele Ghirlanda – imprenditore che ha riscoperto la tradizione dello scoppolato e l’ha riportata in vita nel 2008 – questo prodotto dà il meglio di sé se lo si porziona non a fette, bensì tagliandone le caciotte (da un chilo, chilo e due) grossomodo a metà in senso orizzontale: capovolgendo quella superiore (in effetti una “levata di coppola”) e avendo così come due “ciotole di cacio”, dalle quali, con un cucchiaino, raschiare la pasta in “petali” tendenti ad arricciarsi leggermente. Questo il punto d’arrivo di una procedura di preparazione attenta e paziente. Il latte (rigorosamente ed esclusivamente ovino) viene pastorizzato e cagliato in due riprese, generando una massa caseosa che viene deposta in stampi circolari. Da qui si estraggono le forme, destinate, dopo la salagione, al percorso di affinamento, articolato a sua volta in due fasi: la prima (da 2 a 3 mesi) in ambienti a umidità costante e controllata sul 70%; la seconda (altri 3-4 mesi) in cantine con un grado d’umidità inferiore, fra il 20 e il 30%. All’uscita, la crosta viene trattata con olio di vinacciolo e quindi si procede con la messa in commercio.
IL BOCCONE E LE SUE CARATTERISTICHE
All’assaggio, la consistenza è non ostica; la materia grassa non indifferente (siamo sul 30% abbondante); il profumo sfaccettato, con note di latte fresco, panificato a breve cottura, erbe di campo e mandorla; il gusto risulta garbato, non irruente, ma di temperamento, con un fondo di dolcezza attraversato da lievi correnti acide e animato da un finale di misurata sapidità. Un identikit sensoriale che, nell’ottica dell’abbinamento con la birra, dà spunto ad alcune considerazioni immediate: optare per tipologie tendenzialmente non amare né sapide (entrambi connotati conflittuali con la personalità dello scoppolato); che abbiano buoni requisiti di gestione della frazione lipidica (acidità, bolla e alcol, singolarmente o in combinazione); che presentino un tessuto aromatico capace di richiami armonici rispetto a quello del formaggio. Ed ecco, di seguito, tre applicazioni pratiche delle appena elencate “regole d’ingaggio”.
CON LA WITBIER
Avvio in surplace, con la delicatezza e la moderazione alcolica (siamo sui 4,5 gradi) della “Hesperia”, la Blanche del birrificio “Ventitré”, a Grottaminarda (Avellino). Dorata nel colore, viene speziata con buccia d’arancia amara, coriandolo e pepe rosa; tanto da manifestare, sul piano olfattivo, una sintonia (pur nella divergenza delle tematiche) soprattutto con la connotazione lattea dello scoppolato: creando suggestioni che richiamano alla mente alcuni trattamenti (della pasta o della crosta) applicati in più casi a formaggi di vario genere. Al palato, poi, la sorsata presenta due qualità in questo caso positive: priva di amaro, non urta le affilatezze del boccone; mentre con la sua acidulità, da una parte intercetta (operando in sovrapposizione armonizzante) l’analogo connotato gustativo del nostro cacio e, dall’altra, ne diluisce con sostanziale diligenza il filamento grasso, agendo qui in alleanza con la carbonazione che vivacizza la bevuta.
CON LA BERLINER WEISSE
Si scende di grado alcolico (a quota 3.7), ma si sale in densità sensoriale. Sul quadrato sale infatti una Berliner Weisse, peraltro in versione “wild”: è la “Berlinette” targata “Molesto”, marchio artigianale a Cupramontana (Ancona), che affina per un anno in bottiglia, dopo l’aggiunta di batteri lattici e brettanomiceti. Dorata nel colore e velata d’aspetto, la sua sorsata – che rispetto alla precedente si presenta idem priva di amaro ma ovviamente più spinta nell’acidità – migliora le funzioni di gestione della materia lipidica presente nel boccone, evitando di entrare in conflitto con le sue spigolosità: in pratica replicando, in termini di compatibilità gustativa, i buoni risultati ottenuti dalla “Hesperia”, sebbene i rapporti di forza tra nelle densità sensoriali “tra piatto e bicchiere” siano in questo caso spostati a favore del secondo. Sul piano olfattivo, interessante l’intreccio tra il lattico della bevuta e quello del formaggio, così come tra le rusticità “funky” della prima e il naso caseario del secondo (a creare suggestioni di caciotte stagionate nel fieno).
CON LA SAISON
Chiude la sequenza una Saison – la “Cheyenne” della scuderia “Mastrale” (a Campi Bisenzio, in provincia di Firenze) – che si qualifica per la sostanziale assenza d’amaro, pur nella doverosa secchezza della bevuta. Color dorato carico, la sua sorsata (5.9 gradi e una bella bollicina) di nuovo massaggia a dovere le densità lipidiche dello scoppolato; di nuovo, all’acidulità del formaggio, soprappone armonicamente la propria; di nuovo, con il boccone, instaura un bel dialogo olfattivo, tornando a proporre un naso speziato e agrumato, riportandosi sul binario lungo il quale abbiamo visto procedere la “Hesperia”.
BIRRIFICIO VENTITRÉ
Via Perugia, 23 – Grottaminarda (Avellino)
T. 0825 881074
info@birrificioventitre.it
www.birrificioventitre.it
BIRRIFICIO MOLESTO
Via Marianna Ferranti, 4 – Cupramontana (Ancona)
T. 351 9844903
birrificio@moles.to
www.moles.to
BIRRIFICIO MASTRALE
Via Ugo Novelli, 66 – Campi Bisenzio (Firenze)
T. 349 0909964
birra.mastrale@gmail.com
www.birramastrale.it