Per nove anni è stato l’uomo più potente della ristorazione italiana, colui cui era dato decidere le sorti di grandi e grandissimi chef. Perché nel bene e nel male, è sempre Michelin a tessere, svolgere e purtroppo anche troncare il filo di tante speranze. Ma Fausto Arrighi, classe 1951, non ci sta a fare il pensionato: dopo aver diretto la guida italiana dal 2004 al 2013, continua a essere una presenza assidua nelle sale più chic, scrive su riviste specializzate, partecipa a congressi, lavora come consulente e ora ha perfino firmato un libro per Maretti Editore. Si intitola “Al Ristorante come a Teatro, manuale di comportamento per cuochi, camerieri, ristoratori e un po’ anche per clienti” e passa in rassegna sinteticamente ogni aspetto dell’esperienza e dell’organizzazione professionale del pasto (i capitoli trattano di storia, brigate di sala e di cucina, mise en place, divise, briefing, accoglienza, comanda, seduta, servizio al tavolo, menu, gusto, ricordi). Tuttavia concede poco alla biografia. Si legge solo che ha officiato per 28 anni come ispettore, prima della promozione a direttore, visitando oltre 9000 stabilimenti.
Parliamo un po’ di te. Chi era Fausto Arrighi prima di incontrare Michelin?
“ono nato e cresciuto nel Cremonese, dove ho frequentato una scuola per il turismo, poi sono partito all’estero. Ho compiuto qualche esperienza nel settore alberghiero, perché di soldi in casa non ce n’erano. Il giorno in cui ho compiuto 18 anni sono partito per la Germania, ma non mi sono trovato bene, a quei tempi eravamo ancora i migranti con la valigia in mano e loro cercavano di insegnarmi il tedesco attraverso l’inglese, che ignoravo; poi ho trascorso 5 anni in Francia, dove me la cavavo meglio con la lingua e ho un po’ goduto dei divertimenti della gioventù. E un anno da vagabondo negli Stati Uniti, prima di rientrare. Mio padre era un casaro, mentre mia madre faceva la sarta in casa. Non avevano nemmeno la patente, quindi ci muovevamo pochissimo. Erano tempi in cui ci si sposava in cascina. Anni di una semplicità mostruosa, all’uscita dalla guerra. All’estero ero curioso discoprire culture e cucine: a Stoccarda di gourmet non c’era molto, la città era stata completamente distrutta e ricostruita, bisognava uscire fuori per trovare qualcosa di tipico e un po’ rustico. A San Sebastian, come da noi, non c’era ancora la cultura gastronomica che si sarebbe sviluppata. A Cantarelli bastavano i culatelli, i vini francesi e qualche piatto classicheggiante per assurgere alla fama. Mentre in Francia c’erano già gli etnici e i grandi ristoranti, che però ho scoperto solo dopo essere entrato in Michelin, durante le prime tournée con i colleghi francesi. Allora la zona lionese stava esplodendo”.
Come è andata esattamente?
“È stato del tutto casuale. Ricordo che mio papà stava tinteggiando la cucina con i giornali stesi per terra e ho visto un’inserzione: cercavano una persona per una guida turistica che parlasse francese. Io pensavo fosse il solito lavoro di accompagnatore, poi recandomi a Milano per la selezione, ho scoperto che era il lavoro che sognavo di fare, ma non sapevo nemmeno esistesse. Era il 1977, prima dell’avvento di Marchesi; in Italia c’era una cucina molto legata al territorio, con i ristoranti che tenevano le cassette di funghi esposte. Io conoscevo la guida, ma non avevo idea di chi e come la facesse. Eravamo una cinquantina di candidati, mi sembravano tutti più belli ed eleganti, invece hanno scelto me”.
Com’era la vita da ispettore?
“Scoprivamo un mondo nuovo. In 36 anni mediamente ho fatto oltre 300 ristoranti l’anno, 2 al giorno, 9 a settimana. È una vita di solitudine, perché devi mantenere l’anonimato, cambi albergo quasi tutti i giorni, senza stringere rapporti di amicizia. Allora poi era tutto cartaceo: durante la giornata si visitavano gli alberghi e si scriveva la relazione, c’era molto lavoro da fare. E nelle stanze non c’erano né la televisione né un tavolo per scrivere, allora tiravo fuori un cassetto dall’armadio e lo giravo per stendere il foglio. Alle nove di sera spegnevano il riscaldamento, poi per fortuna anche quel mondo è cambiato. Guardavi, ascoltavi, valutavi la gestualità del cameriere e l’esecuzione del piatto. Era una vita paragonabile a quella degli chef, che sacrificano il privato. Io partivo il lunedì e rientravo il venerdì. I primi anni, quando facevo il sud, perché si turnavano le zone, stavo fuori 15 giorni, anche se formalmente staccavo nel fine settimana. Poi mi sono sposato, ma il contratto era anche con mia moglie: la mia vita è questa e non voglio cambiarla”.
Il piatto più buono, però, restano i marubini ai tre brodi di mamma Giovannina, detta Lina…
“Come si può dire qual è il miglior piatto o il miglior ristorante? La bella serata dipende dalla compagnia, dallo stato di grazia dello chef, è tutto molto soggettivo. Ma la mia ratatouille resta quella. Quando metteva la zuppiera in tavola, il bis c’era sempre”.
Citi poi tre esperienze fondamentali: L’Auberge du Père Bise, il Ristorante Paul Bocuse e Dal Pescatore. Non temi di passare per nostalgico?
“Sono i ristoranti che mi hanno segnato: il primo tre stelle è stato la scoperta. A quei tempi in Italia si polemizzava su Michelin che non premiava i nostri. Ma di posti così non ne avevamo. Sia a livello di ambiente che di cucina e di accoglienza, era qualcosa di impressionante. Poi Paul Bocuse per altre ragioni, era quasi a fine percorso perché festeggiava mezzo secolo da stellato. Dopo aver mangiato i suoi piatti storici, mi impressionò quando andammo nel salone degli eventi, dove in cucina su un lato c’erano due statue di cera, lui e la mamma ai fornelli. Poi nel salone principale i personaggi che si muovevano, fra cui lui che suonava il tamburo con due cucchiai da cucina. E in alto, scolpite nel marmo, le targhe di tutti i tre stelle nel mondo. Allora non ho riso più, perché ho sentito il rispetto verso chi non era francese. Il mattino dopo al mercato lo veneravano tutti: Bonjour Monsieur Paul. C’erano 20 tipi di ostriche in degustazione, una magnificenza della gastronomia unica. La Famiglia Santini, infine, è l’identificazione della cucina e della ristorazione italiana, fatta da persone che lavorano in silenzio e danno gratificazione. Perché da Runate è passato il mondo. La generazione successiva è più “io sono” e forse è un limite. Ma Nadia non è “io” e questo mi piace. Dà il senso dell’italianità: la cucina deve essere buona e fatta bene, senza cercare chissà cosa. Non è sperimentazione, ma conoscenza della materia prima. A volte mi chiedo dove stiamo andando”.
Qualche aneddoto?
“Erano gli anni ’80, in Sicilia; si andava dagli informatori, tipo ufficio del turismo. Questa signora mi riferì che suo cugino aveva aperto un posto dove si mangiava bene. E lo aveva pure avvisato. Io entro in contemporanea con due agenti di viaggio siciliani. Mi siedo e il proprietario pensa che siano loro, quelli della Michelin, quindi serve l’ira di Dio. Era uno chef che aveva lavorato in Francia, debordava di grasso, portava al collo tastevin e chaîne de rôtisseurs, come un generale. Io finisco di mangiare, pago il conto e lascio un messaggio. Al che si rendono conto di aver sbagliato tutto, chissà come è finito il pranzo di quei due”.
In cosa consiste oggi la tua attività di consulente?
“Seguo soprattutto ragazzi all’estero, che hanno voglia di crescere. Diverse strutture in Croazia, dove hanno molto investito nel settore alberghiero e stanno emergendo alcune realtà interessanti. Come in Ungheria: sono umili e vogliono crescere, quindi ti ascoltano”.
Tornando al libro, a chi si rivolge?
“A chi vuole intraprendere un lavoro nel ramo, soprattutto di sala. Il grande ristorante è come un teatro, dove tutti i ruoli sono definiti, anche quello dell’ospite. Da come si raccoglie la prenotazione ai dettagli più minuti del servizio. Vivendo a Cremona, città del violino, sono appassionato di teatro, soprattutto lirica. Ogni giorno c’è qualcosa e io vado volentieri, sempre in giacca e cravatta. Sono ancora vecchio stile, da palchetto e velluto rosso”.
Elenchi anche tanti difetti da emendare.
“Direi soprattutto le cotture e le temperature dei piatti; in sala la mancata comprensione dell’ospite, non anticiparlo nella soluzione di qualsiasi problema, riuscendo magari a cambiare il suo stato d’animo, per quanto ignoto, e fargli passare un bel momento. È questa la magia del cameriere”.
Parli molto anche della figura del cliente, che ha le sue responsabilità.
“La facile lettura del libro mette il lettore meno esperto in grado di capire la complessità del ristorante, il mondo a tanti ignoto che si nasconde dietro la facciata. Se oggi abbiamo difficoltà oggettive nel trovare persone che siano adeguate al ruolo, è anche a causa dell’ospite. Mancanza di rispetto, ritardi, serate prolungate oltre misura, che tengono impegnate le persone fino a orari assurdi, sono alcuni dei problemi più comuni. Basta andare nel Nord Europa, per capire come vadano rispettati gli orari”.