di Stefano Gurrera
“Dio un giorno decise di farsi uomo per salvare il mondo. Ma la cosa non gli riuscì tanto bene. Allora creò lo Château d’Yquem e si fece vino. Non finì più in croce ma in un calice d’argento. Lo presentò, questo vino, ai suoi nuovi discepoli usando solo undici parole: «Prendete e bevete. Questo si che è il calice della salvezza». E il mondo intero, oltre agli apostoli, si ritrovò redento tra essenze divine ed inebrianti fragranze…”.
E’ un piccolo passo estratto dalle pagine ironiche e dissacranti, del primo capitolo, la “Genesi”, de “La Bibbia del Santo bevitore” un manoscritto di Paolo Morelli (il primo wine-writer italiano) mandato alle stampe e mai diventato libro. Ed è perfettamente combaciante con una buona parte della cronaca di tanti piccoli deliri vissuti tra i tintinnii di cinque indimenticabili calici di Château d’Yquem, venerdì 29 al Katane Palace Hotel di Catania sede sussidiaria della delegazione Fisar etnea. Deliri fra diffuse compostezze e linguaggi di intensa religiosità. Con in più una certezza. Brillerà di luce propria, e a lungo, la stelletta che la Fisar di Catania si è appuntata al petto con questa verticale di cinque annate (1991, ’95, ’96, ’97, ’98) del nettare dolce più pregiato, costoso, ambito e celebrato al mondo: lo Château d’Yquem. Una chicca di evento riservata solo a venticinque fortunati prelati dispostissimi a sborsare biglietti verdi di moneta europea per cinque sorsi di storia millenaria. Ma, più che la storia, la fruizione finale è stata il godere di un acro di paradiso terrestre. E da cui cacciar via qualcuno è stata impresa impossibile. Per dirla secca e fermarsi qui. Perché parole nuove per descrivere il “muffato” migliore al mondo, e protagonista della serata, non esistono e se sussistessero non basterebbero mai per una descrizione completa, esaustiva.
Si dice dello Château d’Yquem che le sue virtù riposino su quattro “pilastri”: longevità, intensità, costanza, inimitabilità. Ma sarebbe come descrivere, di un uomo, carattere cultura e personalità solo e attraverso i suoi dati anagrafici. L’ enigma para-teologico, che incarna, resterà sempre tale. Tant’è che ancor oggi anche il più sofisticato degli scanner pare che non sia riuscito ancora a disegnare l’ elica genetica del suo dna. E la sua vera anima, con i suoi segreti, sono condannati a rimanere reclusi a vita in uno scrigno inviolabile. Sappiamo solo il come, e non il perché, di questo prodigio che si sviluppa lungo l’elaborazione di una preziosa, combinata sequenza che parte dalle uve (Sémillon 80% e Sauvignon 20%,il primo per dare struttura, il secondo finezza) e continua col clima della sua una piccola enclave dove lo Château alberga, nelle Graves a sud-ovest di Bordeaux (bagnata dai fiumi Garonne e l’affluente Ciron, quest’ultimo raffredda il primo creando un microclima di nebbie e mite fertilità); e questo facilità la formazione di un fungo microscopico la Botrytis cinerea, muffa nobile, che si attacca alle uve. Infine, ultimo anello della sequenza, la sua variegatissima conformazione pedologica.
Fatta di terreni. sabbiosi e sassosi insieme, alternati a spessi strati argillosi. Tutti in grado di accumulare e restituire sia acqua che calore e quant’altro occorre per rendere ideali le condizioni dello sviluppo della Botrytis cinerea e il suo attacco agli acini. Che perfora la buccia e determina un appassimento sulla pianta insieme ad una serie di trasformazioni chimico-fisiche. Finalizzate a caratterizzare sapore aroma e soprattutto complessità. E soprattutto struttura, tale da lo renderlo il più amabile vino del mondo.
Gaetano Prosperini mentre colma un calice con l’annata 1995
Chi c’era alla Fisar sa cosa significhi “struttura e complessità” ma dubitiamo che mai saprebbe raccontarlo. Se non dispone di almeno mille pagine. Dove farvi confluire storie scritte di molti secoli e passione di mille uomini. Partendo dal XII sec. con Eleonora duchessa di Aquitania prima proprietaria e passando per Alexander de Lur Saluces, e le dodici successive generazioni. Fino al tycoon Bernard Arnauld oggi a capo della multinazionale LVMH proprietaria di Maison di Champagne e tantissimi altri marchi del lusso mondiale e proprietaria da ‘99 dell’Yquem. Un cambio di guardia epocale, forse un destino inevitabile per l Château d’Yquem quello di smettere di essere solo un vino e di entrare a far parte ufficialmente delle icone del lusso. Senza perdere il suo carattere artigianale (vendemmia fatta a mano,150 vendemmiatori, chicco dopo chicco, solo quelli pronti e in molti passaggi) dove la passione rimane uno degli elementi incidenti per raggiungere i più alti indici dell’eccellenza. Tutta confluita in questi cinque calici e circoscritta nel binomio complessità-unicità. Ogni annata diversa dall’altra. Come le scale armoniche e le sue note dominanti, chiare e diverse: eccole, in sintesi (nelle schede in coda le i dati completi): nel ‘98 l’ albicocca; nel ’97 arancia candita; miele e zafferano nel ’96, marzapane e pan pepato nel 95. E tutte queste insieme, come in un prato fiorito nel ’91. Non subito palesate, ma solo dopo una relativamente lunga ossigenazione. Molti hanno cercato, invano, in questi vini, “note chinate di cuoio e stiva di nave coloniale dal ritorno dalle Indie”. Sono stati prima informati che queste sono caratteristiche della longevità e si trovano solo nelle bottiglie centenarie. Ma poi consolati, per la delusione, con l’annuncio che il bello della serata doveva ancora arrivare ed era quello di mangiarci con questi vini. E subito è spuntato Giulio Dedej chef albanese de “Il Cuciniere” il ristorante dell’hotel. Con due dei migliori abbinamenti possibili per chiudere la serata: “Scaloppa di foie gras su crostone al Sauternes con spinaci all’aceto di mela verde e pane ai fichi” e “Gelato di gorgonzola dolce e piccante con croccante di arachidi”. Una chiusura “lunga” per dirla alla sommelier. Come il ricordo, quasi indelebile, che lascerà l’evento a questi venticinque fortunati degustatori…