Nei suoi account si definisce scherzosamente “food guru”, ma chi è davvero Filippo Polidori? C’è lui dietro la comunicazione digital di alcuni dei nomi più belli della cucina e del vino italiani, ma è anche un formidabile organizzatore di eventi visionari, che hanno relazionato mondi agli antipodi.
Come ti definiresti?
“Questa è una bella domanda, non lo so neanche io. Quindi parto da lontano e ti spiego come nasco. Mio babbo Giuliano col fratello Piergiorgio nel 1968 ha aperto la prima balera delle Marche, poi sono diventate dancing e discoteche: si chiamava Dancing 2000, a Sassocorvaro. Mio babbo era un grande appassionato del liscio, che a quei tempi si ballava nelle aie e nei poderi. In famiglia erano impresari edili, così hanno costruito un grande condominio con sotto un garage per ballare su due piani. E ci sono passati tutti, da Mina in avanti. La gente arrivava da lontano e nel 1970 hanno aperto anche il Ristorante 2000, a cento metri dalla balera. Io ho odiato questo mondo fino a 18 anni, perché al ritorno da scuola e anche quando era chiusa, dovevo sempre aiutare e alla fine del servizio raccogliere i bicchieri, già a 12 anni. I miei mi sembravano due disadattati, sfigati che non sapevano che fare della loro vita. Così però ho imparato molte cose. Per esempio che il segreto di un dj è far star bene la gente: quando venivano grossi nomi e la pista non si riempiva, loro incolpavano la mancanza di cultura. Mentre quelli bravi educavano il pubblico. E io ancora oggi incontro chef che stigmatizzano il cliente, perché non sanno tenere la pista piena”.
Poi c’è stato l’incontro con una persona speciale.
“È successo che leggendo la Gazzetta dello Sport sul Giro d’Italia, l’occhio mi è caduto su articoli che parlavano di cibo e di vino, non bianco o nero, ma tirando in ballo letteratura e musica, come una forma d’arte. Era Luigi Veronelli, ma io non lo conoscevo, perché non c’era ancora la rete. Così ho preso carta e penna e ho scritto una lettera ingenua, da ragazzo di campagna, ringraziando a nome della mia famiglia, perché aveva dato un senso ai nostri sacrifici, e lasciando il telefono del ristorante, l’unico che avevamo. Dopo qualche settimana mi chiamano durante il servizio: “Pronto, sono Luigi Veronelli”. Io ci ho messo un po’ a ricordarmi. “Ho ricevuto la tua lettere bellissima, mi ha emozionato, è stato come se ci conoscessimo da sempre e io fossi quello di una volta, senza una segretaria”. È finita che mi ha invitato a Bergamo, quando io al massimo ero stato al Kinki di Bologna. Non sapevo nemmeno dove fosse. L’indomani parto, entro alla Veronelli Editori, mi accomodo nella sala d’attesa, aspetto una ventina di minuti, chiedendomi cosa ci stessi a fare. Si apre la porta: “Filippo, amico mio, entra pure”. Me lo ricordo come se fosse ieri, lui con questi occhi azzurri, dietro le bottiglie vuote, con le pile di libri da tutte le parti. A pranzo cucinava uno chef inglese, perché lui ospitava cuochi da tutto il mondo, e ricordo che mi guardava con occhi stupiti, come uno che non avesse idea di vino o di ristorazione, ma fosse mosso da genuina curiosità. Mi ha chiesto cosa avrei fatto nelle prossime settimane. “Niente, sono appena tornato dal militare, mio padre vorrebbe che prendessi in mano il ristorante di famiglia, ma io faccio il dj per passione”. E lui: “Se non hai niente da fare, la prossima settimana puoi venire con me a visitare dei grandi produttori italiani e francesi”. Sono tornato a casa per fare le valigie, mia madre era diffidente, invece mio padre fa: “Lascialo andare, forse è la volta buona che si innamora del ristorante”. Una settimana con Veronelli mi ha fatto davvero innamorare di quel liquido bianco e nero, che per me fino a quel momento era stato un mero accessorio della tavola; mi ha fatto capire che la ristorazione era un mondo che teneva in piedi l’Italia, fatto di geni e anche delinquenti. Siamo passati in posti mitici, da Tenuta San Guido, da Josko Gravner. Ovunque lui diceva: “È un mio collaboratore bravissimo, ne sentirete parlare”. E quando mi schermivo, mi sgridava. Così sono rimasto con lui 9 anni, fino alla morte, facendo l’autista e scribacchiando di vino, perché la cucina era troppo complessa. Lui mi voleva pagare ma io rifiutavo, mi manteneva mio padre, che sognava il mio ritorno. Ma io ero contento così, perché sapevo di stare con un genio. Era uno che godeva, faceva sbiancare i camerieri, sfidava i maître a chi beveva più bottiglie. Un parco giochi. Quando è mancato, mi sono chiesto: continuo a scrivere o faccio altro? Ero sempre stato in imbarazzo a criticare o mandare indietro un vino difettato, perché capivo il sacrificio. Quindi ho deciso di raccontare solo storie e prodotti che mi piacessero. Proprio in quell’anno, il 1998, arrivava Internet e ho iniziato a scrivere di vino sul primo social network, che non era di cibo ma di musica, My Space. Mi insultavano tutti, ma era l’unico modo per raccontare quello che mi piaceva su un mezzo che avrebbe cambiato le sorti della comunicazione. I primi due clienti sono arrivati grazie a Veronelli, che è ancora il desktop di tutti i miei device. Il primo è stato il Marchese Nicolò Incisa della Rocchetta: “Ma lei cosa farà, scriverà di cibo o altro?” E io: “Voglio raccontare storie di persone che mi piacciono sui nuovi media”. La seconda telefonata è arrivata da Gravner, nel suo momento più buio. Era considerato il più grande produttore di bianchi d’Italia e forse del mondo, che però aveva preso una brutta deriva con i macerati. Il Gambero Rosso scriveva di vini al limite della bevibilità, era considerato in caduta libera. E io sono andato in Georgia con lui a comprare le anfore e ho curato tutta la comunicazione della svolta. Con due clienti così, gli altri praticamente sono arrivati da soli. In pratica la Polidori & Partners, che oggi conta 19 persone, è stata la prima agenzia digitale verticale sul food in Italia.