“Eravamo quattro amici al bar” potrebbe essere anche l’incipit della prima pagina scritta dai Giovani Vignaioli Canavesani. “Ci incontrammo durante la pandemia nello scantinato di casa. Non avevamo un ordine del giorno di cui parlare. Volevamo solo fare qualcosa insieme”, racconta con voce sbarazzina Alessandro Gabriele che, poco distante dalla Serra d’Ivrea – sulla collina di Masino – porta avanti il suo progetto enoico con l’azienda La Campore. Erano in sei, o forse in otto, o comunque non più di quelli che si potessero contare sulle dita di due mani. L’ottimismo e il coraggio non gli mancavano, lo sforzo e la fatica neppure. Bisognava ricostruire Carema e il Canavese tutto. Quello sviluppo industriale della vicina Ivrea aveva disincentivato l’agricoltura e i pochi anziani che avevano deciso di rimanere erano stati – per un ventennio – pan per focaccia per una montagna che, ettaro dopo ettaro, si stava riappropriando dei suoi spazi.
Sembrava tutto sparito e, invece, quelle vigne e le sue secolari tradizioni rurali hanno iniziato a ritrovare nuovamente lo spazio perduto: “Negli ultimi anni la superficie vitata è aumentata del 50% . Oggi siamo a quattrocentosettanta ettari in tutto l’areale del canavese” – annuncia entusiasta il neo presidente dei Giovani Vignaioli Canavesani Gian Marco Viano che, insieme a sua moglie, conduce l’azienda Monte Maletto in una piccola enclave incastonata nella Dora Baltea. E’ Carema. Che guarda dall’alto il Piemonte e la Valle d’Aosta. Ed è lei che è tra i protagonisti di questa rinascita: “siamo arrivati a 22 ettari vitati con poco più di cinquantacinquemila bottiglie prodotte all’anno”. Sembrerebbero i dati di una piccola azienda toscana e, invece, sono quelli complessivi di tutti i viticoltori caremesi. Perché la media qui oscilla tra il piccolo e il minuscolo, anche se la percentuale di entusiasmo, invece, raggiunge i massimi livelli. Mezzo ettaro per uno e tre al massimo per l’altro. Qualche terreno avuto in eredità, ma per molti, invece, l’entusiasmo è anche fatica economica, con i costi da sostenere per l’affitto dei vigneti. “Ci crediamo e ci stiamo provando. Anche se con il vino al momento non possiamo vivere. E per ora in vigna si va solo dopo aver terminato il turno di lavoro”.
“Ci incontriamo la sera – quasi tutti se riusciamo – alla Vineria Caino a Salerano Canavese. E’ diventato il nostro quartier generale”. Attilio, per questi ragazzi, non fa solo da oste tra tigelle e taglieri di salumi e formaggi tipici, ma soprattutto da mentore e sostenitore della rinascita di quello che – da romagnolo puro sangue – è diventato, poi, anche il suo territorio di adozione. A stupire è che qui sembra esserci davvero quell’idea che altrove è diventata solo un bellissimo slogan pubblicitario “Il vino è condivisione” – quasi un’offerta pubblicitaria del paghi uno e prendi due con una bottiglia di vino e un sacchetto preconfezionato di condivisione in omaggio. Tra i giovani vignaioli, invece, sembra esistere davvero nella sua eccezione etimologica: “vinifico da … perché non ho ancora la cantina”, “ieri abbiamo provato insieme gli assaggi in botte da.…”. E se ci sono pochi soldi ci si inventa e si parte tutti insieme per gli States per far conoscere il Carema così da non disperdere energie. Certo ognuno poi ha il suo credo personale o lo sta affinando nel tempo, ma, a prescindere dallo stile, nel Canavese sembra essere ritornato “di moda” lo spirito del vino.
“Puntiamo alla valorizzazione della zona e dei vitigni autoctoni” dice il presidente uscente Vittorio Garda che dal 2014 – con sua moglie Martina – porta avanti un coraggioso progetto di custodia delle viti e del territorio – a Carema – in poco più di un ettaro di vigna con l’azienda Sorpasso. E se di territorio si tratta allora non di solo Nebbiolo si può vivere, ma è necessario dare – è proprio il caso di dirlo –nuova luce anche all’altro vitigno principe di questo areale: l’Erbaluce le cui sorti paiono indissolubilmente legate solo ad un luogo: Caluso. La Docg consente, infatti, solo ai produttori di questo piccolo comune e agli altri 35 limitrofi situati tra Ivrea e Caluso di potersi fregiare del nome del vitigno in etichetta. Eppure a ben vedere di Erbaluce c’è ne è tanto in tutto il territorio morenico del Canavese. “Un esempio fra tutti è con il Canavese bianco doc – prodotto con solo Erbaluce in purezza” – dice Viano “ma è vietato l’indicazione del vitigno in etichetta”. E così i Giovani Vignaioli stanno cercando di smuovere le acque per sdoganare l’utilizzo del nome anche nelle altre denominazioni del canavese che prevedono l’utilizzo in purezza di questo vitigno.
Il loro quindi sembra un moto continuo, scrollare il vecchio e far spazio al nuovo. La conferma arriva anche con la terza edizione di ReWine – kermesse da loro ideata per la promozione del territorio e dei loro suoi vini. La prima fatta un po’ “homemade” con pochi soldi, ma tanto entusiasmo. Quello stesso che fu così apprezzato tanto che la seconda ha visto ospiti di eccezione a sostenerli come Armando Castagno e Attilio Scienza. E non ci è voluto molto, allora, ad ottenere anche l’appoggio dei big del vino, con Marta Rinaldi, Mateja Gravner e Mario Pojer che hanno battezzato il ReWine 2023, tenutosi quest’anno – per la stampa di settore – alle Officine H di Ivrea. Così in poco meno di un triennio questi vigneron hanno raccolto tutto il loro passato reinventandolo in un futuro, con sempre più convinti e restituiti toni nel resto dell’Italia e del mondo. Il perché – più di ogni altra motivazione – lo si ritrova nei loro vini tracciati da un’eleganza mai esibita. Da quei nebbioli lontani dalle austerità del Barolo e troppo estranei anche a quelle strutture della Valtellina e da quei bianchi che a volte assomigliano a dei rossi, senza alcuna voglia di essere additati come vini glu glu.
Il Canevese del Terzio Millennio passa da qui, o meglio, da loro e quello che ne viene fuori anche in questa edizione 2023 di ReWine non sono i punteggi stratosferici da dare all’uno o all’altro vino, ma ne emerge un territorio e lo spirito di un vino inteso come prodotto umano. E, poi, si, certo, anche uno, due, tre, ma pure dieci calici tutti degni di lode e coccarde. (Ha collaborato Federico Latteri)