di Simone Cantoni
Pietrasanta, un gioiello storico artistico piccolo (nelle dimensioni), ma grande (nel pregio) incastonato nel panorama della Versilia, quel lembo della provincia di Lucca che si affaccia sulle coste del Tirreno.
Qui, all’ombra dei tanti monumenti che scandiscono l’orizzonte del centro cittadino (“all’ombra” in senso figurato: in realtà siamo a qualche chilometro, in un’ordinata zona artigianale, detta “Il Portone”), sorge l’impianto produttivo de “Il Forte”, un marchio artigianale esso stesso posizionato nella fascia alta del proprio segmento di mercato: ciò grazie al solido gradimento con cui pubblico e critica premiano l’impegno di Francesco Mancini, titolare e sempre al timone in sala cotte, come “capitano” di un “equipaggio” nel quale rientrano diversi e preziosi collaboratori. È proprio di questa realtà toscana che ci occupiamo stavolta con la “Birre dell’anima”: il nostro appuntamento periodico volto a mettere in luce il profilo di un particolare prodotto che, nel cuore del proprio artefice, occupi una posizione di spicco; in virtù di ragioni la cui natura può essere non necessariamente affettiva, ma riguardare tante altre dimensioni: dal ruolo avuto nella storia di quell’attività imprenditoriale al livello (per esempio) di rappresentatività assunto in ordine alla percezione, nell’immaginario collettivo, della propria scuderia d’appartenenza. Ebbene, per Francesco, la sua “creatura speciale” è “Il Tralcio”, una Italian Grape Ale con mosto di uve a bacca nera, rifermentata secondo il protocollo del metodo classico.
IL TRALCIO E LA SUA GENESI
“Il Tralcio” è anzitutto una delle due etichette (l’altra è la “Birrasanta”) con cui il “Forte” ha avviato il progetto “Le Radici”: la missione è quella di esplorare gli spazi di contaminazione tra il mondo brassicolo e quello vinicolo. Fin dal nome, in questo caso: l’immagine del tralcio si riferisce a quello sia della vite sia del luppolo. Trattandosi di una referenza che include mosto d’uva, viene fatta uscire a cadenza come minimo annuale (una “millesimata”, come si dice); e tende a esprimere un temperamento specifico in ogni sua edizione d’imbottigliamento. Questo, in sintesi, il processo di lavorazione: unito il mosto di orzo maltato a quello d’uva (il secondo stabilizzato a freddo al fine di evitare batterizzazioni), l’assemblaggio di materiale zuccherino viene avviato a una fermentazione in due fasi, la prima mediante inoculo di lievito da birra “Trappist High Gravity” e la seconda affidata invece al ceppo enologico del “Bayanus”, capace di sostenere condizioni di forte concentrazione alcolica, nonché di elevata pressione: e infatti utilizzato anche per un’ulteriore fermentazione in vetro, secondo le norme (come detto) dell metodo classico, con le canoniche operazioni della rotazione sulle “pupitres” e della sboccatura.
UNA STORIA FAMILIARE
“Non che manchino – spiega Mancini – altre birre, nella mia gamma, alle quali mi sento affezionato: anzi, molto affezionato. Ma nel ‘Tralcio’ si condensano una serie legami particolarmente importanti. La gestazione della prima edizione, quella elaborata con gli acini della vendemmia 2017 per uscire sul mercato nel 2018, ha coinciso con la nascita del primo dei miei due figli, Folco. Poi, mentre all’inizio si non applicava la rifermentazione con metodo classico, questa evoluzione è stata introdotta con l’annualità 2019 (uscita poi nel 2020): e tale sviluppo è arrivato in concomitanza con il parto suo fratello, Teseo. Per chiudere il cerchio, il mosto d’uva che utilizziamo è quello dell’azienda agricola ‘Bruscola’, a San Casciano in Val di Pesa: la cui famiglia proprietaria è quella della mia compagna, Sara”.
UN BICCHIERE NON COMUNE
Aitante nella stazza alcolica, ma elegante nella sua spinta (mai pungente), “Il Tralcio” presenta un caldo colore corallo, ovviamente velato da sottile sedimento e coronato da una torretta di schiuma destinata a ridursi rapidamente in una collana di bollicine disposta lungo la linea circolare di contatto tra la massa liquida della birra e il bordo interno del bicchiere. Al naso, l’arco olfattivo intreccia note fruttate di vario genere (lampone, banana, dattero, mandorla) a tematiche floreali (ibisco), caramellate, mielate e speziate (noce moscata). Infine il sorseggio: fluente grazie alla corporatura leggera, alla vibrante acidulità, alla bollicina pimpante, al finale di bocca pulito (secco e garbatamente tannico), preludio al corroborante rilascio termico dei suoi circa 12 gradi.
ABBINAMENTO, ANZI, ABBINAMENTI
La sua vicinanza costituzionale a un vino rosso mosso ne indirizza la combinazione con carni magari grasse (ad esempio i tagli del cosiddetto “quinto quarto”), senza ovviamente trascurare le varie tagliate e bistecche o un più delicato roastbeef. Per il medesimo principio logico, è sensato pensarla servita su primi piatti essi stessi di carne: dai ragù ai sughi di selvaggina. Uscendo dalle cucine, un abbinamento immateriale immediato è quello con alcuni film nei quali, a loro volta, si parla (anche) di viti e uve: “Mondovino” (un documentario molto interessante), “Un’ottima annata”, “l profumo del mosto selvatico”, “Sideways – In viaggio con Jack”. Ora, una puntata in libreria; dallo scaffale preleviamo idealmente “Un tralcio di more”, di Carmela Tuccari: una raccolta di “haiku”, brevi componimenti poetici della tradizione giapponese, strutturati in tre versi e 17 sillabe (5, 7, 5), qui dette, appunto, more (in fonologia la mora rappresenta l’unità di suono che determina la quantità, cioè la durata, delle sillabe stesse). E allora buona… lettura con sorseggio!
BIRRIFICIO DEL FORTE
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