di Fabrizio Carrera
La Docg utile per l’Etna? “No, non vedo nessuna utilità”. E le fascette anti-contraffazione? “Mi sembrano necessarie. C’è un territorio con i suoi vini che vanno tutelati”. E poi ancora considerazioni sullo stop ai nuovi vigneti, i tanti produttori di vino “naturale” che altri terroir prestigiosi non annoverano e invece l’Etna sì.
Incontriamo Marco de Grazia. Ci riceve nel suo studio, nella sua casa-cantina tra i vigneti di Calderara, nel territorio di Randazzo, lì dove nascono, almeno ci sembra, pensieri e strategie di uno dei produttori più iconici. Vari libri stipati senza un ordine preciso, bottiglie di vino sparse e ancora tappate in attesa di un cavatappi che le destini a una bevuta. E poi quaderni, taccuini, appunti, fogli zeppe di cifre. De Grazia è predisposto alla chiacchiera. Accendiamo il nostro taccuino digitale. Chiediamo subito cosa ne pensa della Docg per l’Etna. C’è l’idea di avviarne l’iter. Era uno degli obiettivi del consorzio di cui De Grazia fa parte essendo uno dei componenti del direttivo. La risposta è articolata.
“Le decisioni – spiega de Grazia – sono sempre dell’assemblea. Ma prima di presentare questioni delicate e strategiche al voto dell’assemblea, servono informazioni. Bisogna informare tutti i soci bene portando numeri e paragoni e spiegando gli aspetti tecnici. Penso che queste proposte saranno affrontate entro la fine dell’anno. E sulla Docg – aggiunge – inutile dire se si fa, prima di sapere che cosa ne pensa l’assemblea, prima che sia spiegata bene cosa ai soci. Continua de Grazia: “Ogni Docg porta un po’ di appesantimento burocratico. La mia opinione ha poca rilevanza, ma credo che la Docg, se ci sarà o se non ci sarà, non influenzerà il futuro dell’Etna. Può avere un impatto sull’orgoglio di chi fa vino, ma non sulle vendite o sulla reputazione delle aziende o del territorio. Utile? No. Non vedo questa grande utilità. Forse un po’ di clamore mediatico per qualche breve periodo ma nient’altro. La Docg ha aiutato il Cerasuolo di Vittoria? Non mi pare. Come non credo abbia aiutato territori come Barolo, Barbaresco, Chianti o Albana”. De Grazia così sposta il suo ragionamento sulla crescita di un terroir attraverso un altro aspetto. “Quello che conta è la quantità di qualità: in un territorio non ci possono essere solo uno o due produttori che fanno grandi vini. Se ci sono cento bravi produttori, allora sì, c’è la possibilità che un territorio si faccia notare per la produzione dei grandi vini. L’Etna ha un potenziale e un grande vino riesce a esprimere questo potenziale. Ma se questo potenziale lo manifesti in maniera poco chiara, crei confusione nel mercato”.
C’è dell’altro. Cosa diciamo dell’idea delle fascette anti-contraffazione? “Le fascette dobbiamo porle all’attenzione dell’assemblea, dobbiamo informarci su costi e conseguenze. Io le vedo positive, è un controllo, il costo può essere assorbito, non credo che sia un costo eccessivo, è un controllo che credo ci debba essere, perché succede che quando fai qualcosa che si pone all’attenzione mondiale, la tentazione alla contraffazione c’è. Il no è perentorio invece per la modifica ai confini della Doc. ”Dico no. Non ha mai funzionato in nessuna parte d’Italia, per nessuna zona viticola. Chi l’ha fatto se n’è pentito”. La discussione si sposta su una peculiarità, a dire di de Grazia, tutta dell’Etna. “Rifletto su un aspetto che andrebbe approfondito. Sia in Francia e sia in Italia, ma soprattutto in Francia, nelle zone di alta qualità riconosciute in tutto il mondo ci sono pochissimi produttori di vini cosiddetti naturali. Anzi, quasi non ce ne sono. I vini cosiddetti naturali appartengono a vini Igt, fuori dalle Doc. Un Barolo “naturale” non c’è, semmai ci sono Barolo bio. Ci possono essere invece vini tradizionali. Prodotti secondo schemi del passato. Sull’Etna cominciano a esserci tanti vini “naturali” e tutto questo mi fa riflettere. Attenti, non ho niente contro i vini cosiddetti naturali, ma possono creare confusione”. Già, ma perché accade tutto questo? “Sull’Etna c’è spazio per tutti, anche per i “naturali”. Credo che l’Etna ha un fascino più poliedrico, un vulcano gigantesco, una cosa straordinaria, terreni così particolari, che porta a essere attraente per tante persone che vogliono avvicinarsi al vino”.
Ma non è anche una crescita tumultuosa e poco controllata di un territorio che può portare confusione? De Grazia anche su questo ha un’idea chiara: “La confusione si risolve spesso da sola. Ci sarà una selezione naturale, mi auguro non dolorosa. La maggior parte delle aziende che sono nate negli ultimi anni, forse il 70 per cento, non ha una cantina. E molti di questi non riusciranno ad averla per i costi insostenibili. Non potranno avere il controllo della vinificazione e questo potrebbe essere un problema”. Sul tappeto c’è un’altra questione che potrà dividere gli animi dei soci dell’Etna. Prorogare o no lo stop ai nuovi vigneti? Il fermo scade nell’estate del 2024. E bisognerà prendere una decisione per un territorio che ha visto crescere gli ettari vitati con percentuali a doppie cifre ogni anno. E ora siano attestati a 1.200 ettari vitati. Un numerone se paragonato a cinque, sei anni fa. Qual è il pensiero di de Grazia? “Qui servono i numeri prima di ogni decisione. Faccio un esempio. Quante sono le bottiglie di Etna Rosso e quante di Etna Rosso da contrada. Se le prime sono tantissime rispetto allo seconde credo che la moratoria debba proseguire rendendosi conto di come sta andando il mercato. Io sono liberista per indole, ma protettivo per chi ha bisogno di crescere e in questo momento ce ne sono tanti. Ci sono una ventina di aziende che dominano la Doc dal punto di vista commerciale, i nuovi impianti che sono stati fatti negli ultimi 5/7 anni, sono stati fatti da aziende grandi. Va cercato un equilibrio… ripeto è necessario studiare bene i numeri dell’imbottigliato”. E aggiunge: “Da una parte ci sono aziende che ce la farebbero se fossero aperte le porte. Altre ne soffrirebbero. E bisogna capire questa sofferenza… Per questo non me la sento di dare un giudizio sereno: se rispondo da produttore di vino è una cosa, come componente del cda, è un’altra. Nuovi impianti? Dipende anche dove li metti”. Il paragone con la Francia è sempre dietro l’angolo. “La qualità viene data da un’identità sempre più centrata. Come si vede in Borgogna: Village, premier cru, grand cru. Loro hanno Borgogna, il livello più basso che è come se fosse il nostro Etna Rosso. Ma poi hanno i livelli più alti”. E ancora: “La grande crescita qualitativa, come la intendo io, non sta nei gran cru o premier cru, sarebbe troppo facile. Sta sugli altri rossi. Se sposto il ragionamento sull’Etna dico che i rossi hanno ancora margini di miglioramento che possono andare dal 5 al 10 per cento, c’è spazio quindi per migliorare ancora un po’. Sui bianchi invece il livello di miglioramento può essere altissimo, anche del 25, 30 per cento e solo allora potremo avere quantità di qualità elevatissima. Oggi tutti fanno vino di contrada: se sia eccezionale o no, quella è un’altra cosa ma hanno comunque catturato l’attenzione di stampa e critica. La vera crescita è se si riescono a fare Etna rosso di livello altissimi. Anche sulla questione dei prezzi, come in Borgogna, già i Village spuntano un prezzo molto alto, ed è giusto perché i costi di produzione tra i vari step, ci sono. E qui i costi rispetto alla Borgogna, sono molto più alti: terrazzamenti, condizioni meteo variabili e così via.
C’è spazio per il primo ricordo legato all’arrivo sull’Etna. “Io sono arrivato nel 1999, mi hanno regalato una scatola di vino piena di frutta tra cui pesche tabacchiere che non avevo mai visto. Ho assaggiato alcuni vini: non erano disastrosi, ma fatti in condizioni precarie. I difetti erano pochissimi. Pensai a una sorta di resistenza straordinaria. Disorganizzati, igienicamente così così, ma c’era materia prima che richiedeva attenzione. Poi sono tornato l’anno dopo, e ho cominciato a girare per acquistare. Mi ha colpito il potenziale dei vini, facevo quello di mestiere. Ho cominciato a produrre 2.000/3000 bottiglie. In principio era così. Dopo due, tre anni non potevi andare avanti così, non avevo controllo sulla vinificazione e dunque, capisco quelli che sono in queste condizioni. Decisi di fare vino per pochi amici, ma poi mi sono dato tre anni per fare la cantina. Oggi ho 40 ettari vitati”. E come l’Etna ha cambiato invece Marco de Grazia? “Vent’anni qui sono tanti, cambi vita, pensiero, tante cose. Io sono rimasto quello che sono, sono diventato ancora di più quello che sono. Ho però imparato a essere più tollerante. Qui ho dovuto cambiare modo di lavorare. Qui si lavora altrettanto bene, ma con altri metodi e che non erano i miei. E ho imparato a diventare meno centrato su me stesso e su quello che avevo come bagaglio”.