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La degustazione

Le grandi trattorie italiane/4 – La tradizione umbra da Capanno a Spoleto

09 Febbraio 2023
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di Alessandra Meldolesi

Al centro di tutto c’è il camino scoppiettante con lo spiedo che gira come un planetario, cuore di un sistema gastronomico che gravita irresistibilmente sul pianeta Umbria, regione per tanti versi “minore”, eppure fortemente identitaria.

Tutt’intorno le mura in pietra viva e le travi sul soffitto simulano una storicità che dista pochi passi. Qui accanto, su una collina alle porte di Spoleto, che però sembra sperduta tanto è isolata dal bosco e dalla strada impervia, c’era il capanno di caccia che dà il nome alla trattoria odierna. Una casupola giustappunto con il camino, il tavolaccio e gli spioncini, visto che la zona pullulava di tordi e colombacci. I Rastelli erano una famiglia di cacciatori, con la doppietta e il carniere sempre in spalla. Compreso papà Giuseppe, che con mamma Angela mezzo secolo fa aveva deciso di adibire quel terreno di famiglia a spazio per le merende estive, visto che d’inverno, con la neve, nessuno si sarebbe avventurato. Quindi la prima costruzione, seguita da un veloce ampiamento della metratura e dell’offerta, visto che la domanda aumentava e gli ospiti iniziavano a reclamare primi piatti e carni alla griglia. Ai primi provvedeva Angela, abilissima col matterello, insieme a qualche donna del paese, mentre il marito maneggiava pilotto e leccarda sulle braci. Solo a pranzo però, visto che continuava a lavorare in campagna, procacciando ottima materia prima. Fra i tavoli cominciava a dare una mano il figlio Mauro, timido al punto che quando arrivava qualcuno, si rifugiava su un albero. Ricorda bene i calcinacci dei lavori di ampliamento nel 1980, per la casa sopra e due camere degli ospiti, e poi nel 2000, per la seconda sala. Nel frattempo la sorella Cristina, dopo il diploma all’alberghiero, era tornata a casa e la squadra stava assumendo la composizione attuale: Mauro in sala, in cantina e agli acquisti; la moglie Daniela incaricata di primi piatti e dessert; il figlio Giulio agli antipasti e Daniela ai secondi; più il jolly di mamma Angela.

La fama dell’esercizio nel frattempo è esplosa, prima con i tre gamberi, poi con la chiocciola Slow Food, sempre confermati, tanto che oggi i tavoli sono gremiti di foodies che si mettono in viaggio da tutto il centro Italia per la cacciagione e il tartufo. In una gestione familiare come questa, la proposta è tutt’altro che ingenua, ma resta ben incardinata nel format trattoria e nelle guide di una cucina casereccia, tratteggiata a suo tempo da una coppia di autodidatti. È chiaro che la continuità rappresenta una scelta per sempre, senza scimmiottamenti da wannabe gourmet. L’inizio non può che essere al mercato, o meglio in campagna. Gran parte degli ortaggi arriva dall’orto della casa, che quest’anno ha messo a dimora 500 piante di asparagi. Mentre al foraging provvede qualche signora, che incarniera raponzoli, cicoria, pimpinella e saprusella. Anche i salumi sono in parte propri, in parte di un macellaio di Strettura, che alleva e cede un paio di maiali. In antipasto sono irresistibili la coppa al profumo d’arancio e la salsiccia sott’olio, che era caduta in disuso, ma grazie all’extravergine resta pastosa, mentre il gusto si evolve. Né in chiusura sono da meno i formaggi, fra cui i caprini e i pecorini di Francesco Rossi, alias Colforcella, con le sue forme da 25 chili, praticamente un Parmigiano di pecora. E ancora gli agnelli di Strettura, la pasta secca Regina dei Sibillini, l’olio Decimi e di altri frantoi umbri, funghi e tartufi in abbondanza.

La cantina segue, anche se Mauro schiva ogni sciovinismo. “Non siamo la Borgogna, ma la crescita è stata netta, se penso a quando con papà andavamo a prendere le damigiane a Montefalco e poi imbottigliavo”. In particolare negli ultimi anni si è assistito al boom del trebbiano spoletino, che non ha niente a che vedere con il toscano o l’abruzzese, ma deve il suo nome alla città di Trevi. È stata la cantina Tabarrini a rilanciarlo e ancora si trova in zona nel caratteristico impianto ad alberata. Incuriosisce gli esperti per le potenzialità di invecchiamento, con note empireumatiche e di sottobosco che lo predispongono all’abbinamento territoriale col tartufo. Ma fra le 700 referenze, non mancano Champagne, Borgogna e grandi piemontesi. Il tartufo è quasi sempre presente nelle sue diverse varietà, compreso il bianco delle vicine Marche. Un must sulla frittatina, in realtà un paio di uova strapazzate al secondo e ben bavose, come sugli strangozzi fatti in casa con acqua e poche uova. Possono essere conditi anche alla spoletina, con pomodoro e peperoncino, in stagione con gli asparagi selvatici o i funghi sanguinosi, oppure al ragù bianco di piccione, utilizzando le carcasse avanzate dai secondi, cotte con aromi e sfilacciate. Ma ci sono anche la bruschettina e la patata ripiena di uovo con fonduta di Parmigiano, sempre al tartufo.

È inconfondibilmente umbra, infatti, la mano della cucina, mai greve nei condimenti e ben bilanciata nei suoi molteplici profumi, tutt’altro che invasivi. Come nei secondi di cacciagione in casseruola, un merletto balsamico e resinoso di timo e ginepro, alloro, salvia e bacche di sorbastrella per la virata terragna. E in estate torna il grande spiedo esterno, sui cui volteggiano piccioni ripieni e brani di agnello. Caserecci i dessert, come la crostata di marmellata di more selvatiche fatta in casa.

STRANGOZZI AL TARTUFO
Ingredienti per 4 persone

Per gli strangozzi:

  • 500 g di farina 0
  • 250 g di acqua
  • 2 cucchiaio di olio extravergine
  • 1 pizzico di sale

Disporre la farina sulla spianatoia di legno e aprirla a fontana. Versare al centro poco alla volta gli ingredienti e cominciare a lavorare a mano dall’interno, fino a ottenere un impasto liscio e consistente. La palla va fatta riposare in frigorifero, avvolta nella pellicola, per circa 15 minuti. Prendere l’impasto e con un mattarello di legno tirare la sfoglia non troppo finemente, allo spessore di 2-3 millimetri secondo il gusto. Ricavare strisce larghe circa 15 centimetri, infarinando leggermente per non fare appiccicare e arrotolando. Tagliare a striscioline con un coltello alto, aiutandosi con l’altra mano per fare da battuta al coltello e mantenere il rotolo di pasta fermo. Gli strangozzi vanno srotolati, per poi creare piccoli nidi leggermente infarinati da riporre in frigorifero. È possibile unire all’impasto qualche rosso d’uovo battuto per una maggiore elasticità (un paio per mezzo chilo di farina). Gli strangozzi si possono condire con il tartufo estivo o il nero pregiato. Si prendono i tartufi, si lavano, si spazzolano bene dalla terra e si grattugiano, aggiungendo un pizzico di sale e di pepe. In una padella larga si mette uno spicchio di aglio con l’olio e si fa leggermente soffriggere. A fuoco spento si aggiungono il tartufo, gli strangozzi ben scolati e si manteca il tutto. Per finire si gratta sopra ancora un po’ di tartufo.

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