di Dario La Rosa
Se pensi alla carne e ci associ la figura del macellaio che, coltello alla mano, riesce a tirar fuori dal bovino tutta la magia di sapori di cui è capace l’animale allora non puoi non pensare a lui.
Dario Cecchini è la tradizione che si tramanda ormai da oltre due secoli e che continua grazie alle sue mani esperte in un borgo della Toscana, Panzano in Chianti, e in ristoranti sparsi per la regione.
L’estate del macellaio, ce la racconti.
“Io lavoro tutti i giorni dalle 7 del mattino alle 10 di sera, ma dico sempre che non ho mai lavorato. Ho seguito la mia passione. Sto insistendo per ottenere risultati dopo 48 anni di personale attività, e 250 di tradizione tramandata di padre in figlio. Se mi impegno ancora bene potrò dire di essere un buon macellaio. Percorro la strada per migliorarmi, come avveniva nel rinascimento per le arti e i mestieri, al fine di una ricchezza alta e non per mero guadagno. L’idea è di sostenere la mia piccola comunità e serve impegno e lavoro. Si parla di km 0, parliamo anche di piccole comunità, per mantenerle soprattutto vive, portando gente che dorme, prende caffè o va nei negozi. Oggi, dopo anni, cominciano ad arrivare buoni risultati”.
Ma cosa significa oggi essere macellaio? La grande distribuzione, le macchine per il taglio e l’assenza di contatto diretto fra bottegaio e cliente stanno oscurando questa figura?
“Oggi un macellaio è quello che ha relazioni solide con l’allevatore. E’ quello che conosce l’animale prima della nascita, ne segue la crescita e se lo prende intero dopo la macellazione. E’ quello che cerca di garantirgli cibo sano e morte onesta, colui che trova il modo di ringraziare il sacrificio. Cerchiamo di spiegarlo alle persone grazie ai nostri locali in cui si mangia in convivio. Tutto è buono se è cucinato bene, noi manteniamo la tradizione, non esiste solo la bistecca. Meglio morire in trincea che vedere in giro solo fiorentine”.
Per mangiare della buona carne serve un buon animale… Lei si serve in Spagna, che ci dice della produzione italiana?
“I miei animali sono allevati nel parco dei Pirenei dove una famiglia sola ha il permesso di tenere bovini a 1.800 metri in spazi liberi. Quanto alla produzione italiana ben venga, ci mancherebbe. Ogni artigiano però è libero di fare come preferisce. Non importa dove viene prodotta la materia prima, l’importante è che sia veramente buona e di qualità. Siamo una grande nazione di artigiani, ciascuno sceglierebbe il meglio, il resto è noia”.
Come facciamo però a misurare la qualità in un contesto sempre più mirato alla velocità e facilità negli acquisti?
“Guarda il macellaio negli occhi. Se ha passione e se ama il suo lavoro mangerai bene. Per il resto ci vuole una competenza che non ha a che fare con un algoritmo”.
Lei conosce ogni parte dell’animale, quali sono le parti e i piatti preferiti, escludendo la fiorentina?
“La fiorentina è ridotta a una pizza, è la banalità al cubo. La prima l’ho mangiata a 18 anni, mica si mangiava così tanto, ma dell’animale non avanzava mai nulla, la nonna cucinava per noi le frattaglie che oggi sono considerati avanzi, scarti. Amo i ginocchi bolliti; la francesina, ovvero il bollito di ginocchio e pancia con la cipolla, e la trippa”.
La carne viene sempre più spesso esposta in vetrina. Le celle frigo spopolano… dove andiamo a parare? Come si fa a mangiar della buona carne in questo senso?
“Non ti fidar di loro ma guarda e passa. Non c’è una regola, c’è solo una professione. Se si ha bisogno delle celle la professione si abbassa. Si va verso un Medioevo industriale. All’epoca i libri classici furono protetti nei monasteri. Quest’arte bisogna praticarla. Oggi i classici della carne verranno protetti dagli artigiani. Per farlo cercheremo di spronare i ragazzi, sperando risveglino l’arte del macellaio. Riguardo alle vetrine, poi, ripenso a Oscar Wilde a cui chiesero della moda. Rispose: la moda è quella cosa così brutta che sono costretto a cambiarla tutti gli anni”.
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