ITINERARI GOLOSI
Gli indirizzi, il rito, i consigli per gustare al meglio il simbolo del cibo di strada palermitano
Pane e panelle,
ecco i più buoni
Quando, tra noi giornalisti, si vuole dire che una fotografia è brutta, piatta e senz’anima, diciamo che è «una panella». Ma se smettiamo di essere giornalisti e diventiamo solo palermitani scopriamo che solo le foto di Cartier Bresson possono competere con una panella e che la frittella più amata dai palermitani è di gran lunga migliore di chi ritiene di essere un grande fotografo circondato da competenti cortigiani che lo osannano.
Un «panelle tour» palermitano è un’impresa non facile per la quantità e la qualità dell’offerta, come direbbero Tremonti e la Marcegaglia. Intanto occorre decidere cosa veramente vogliamo. Perché la panella (che qui chiamiamo latu sensu a rappresentare tutti i generi da friggitoria tradizionale) può essere consumata in diverse condizioni.
La «morte sua» è in mezzo al pane. Il classico «pane e panelle» che è diventato paradigma di un’onesta povertà che sa riconoscere il gusto delle cose umili ma, diciamolo, non disdegnerebbe una spigola da 70 «leuri». Ma anche lì c’è molto da dire. Intanto il pane. In che tipo di «vestito» possiamo infilare le panelle? Guardatevi dalla «rosetta» bitorzoluta che a morderla ci vogliono i denti sani di un giovane adulto. La pagnotta (in ossequio alla quale c’è chi fa – orrore, orrore – le panelle rotonde) potrebbe anche andare a patto che venga privata della mollica in eccedenza perché diversamente il panino «inchiumma», cioè rimane sullo stomaco per troppa «mappazza». Mafaldine e scalette hanno gli angoli troppo duri che non entrano in gioco col complesso fatto di gusto ma anche di forma. Meglio il sempre fresco da tagliare a metà longitudinalmente avendo cura di asportare la mollica dalla parte superiore, quella panciuta. Mai rimacinato oppure gli impegnativi sfilatini che hanno il dorso coi «pizzi».
Quante panelle in ogni panino? Un giusto equilibrio dice non più di quattro ma, poiché ormai la forma della panella è lasciata alla (troppa) creatività del panellaro, abbiamo panelle rettangolari classiche, mezze panelle (più piccole e più spesse, per i ristoranti) panelle rotonde o a mezza luna. Ma l’importante è che la panella da panino non sia molto spessa per garantire una cottura a puntino e non avvertire mai in bocca il «senso della farinata». Insomma, se non prevale il gusto del fritto, che frittella è? La panella troppo spessa, soventemente sa di panella bollita che viene inflitta come pena accessoria ai ladri di merendine.
Quando la panella non finisce in mezzo a un panino, si mangia da sola. Ma c’è modo e modo. Insomma se un panellaro tira fuori il piattino di plastica, cambiate fornitore. La panella va servita bollente in un doppio strato di carta da pane. Il complesso di carta e panelle, in questi casi, prende il nome di «cartata di panelle». La «cartata» è l’equivalente di un piatto. E’ destinata a contenere cibi di immediato consumo: panelle, crocchè, rascature, broccoli alla pastetta, pesci fritti. Quando si vuole affermare che di una persona l’Umanità farebbe volentieri a meno, a Palermo la si definisce «cartata di resche», cioè porzione di lische spolpate. Praticamente da gettare.
La panella va cosparsa di sale perché nella fase di preparazione non ne è stato impiegato. C’è chi aggiunge pure qualche goccia di limone ma, al riguardo, esistono due diverse scuole di pensiero storicamente e costantemente impegnate nella fiera difesa del proprio punto di vista.
Dove mangiare le panelle? Anche su questo aspetto le opinioni sono diverse e le «tipologie» numerose. Ma una cosa va detta subito. A Palermo tutti «abbannianu»: frutta, verdura, sfincioni, pesce. Nei mercati, lungo le strade. Ma un «abbannio» delle panelle non si è mai sentito. Come dire: che bisogno c’è? Basta il profumo…
Cominciamo, dunque, dalle friggitorie che, ormai, sono luoghi del fast food, il nostro McDonald’s, con rispetto parlando. All’origine di ogni friggitoria c’è la panella e una categoria ristrettissima di «accompagnatori»: crocchè, rascature, fette e quaglie. Le crocchè sono fatte con le patate lesse macinate e la mentuccia. Le rascature sono ciò che rimane nel pentolone dopo la bollitura della farina di ceci delle panelle. Si raschia, si impasta di nuovo, se ne fanno delle crocchette di forma prismatica per distinguerle dalle «cazzille», le crocchè, che hanno forma arrotondata. Le «fette» sono melenzane fritte. Le quaglie pure, solo che la melenzana non viene tagliata a fette ma a spicchi e non completamente in modo che rimanga «a grappolo».
Adesso le friggitorie si sono attrezzate e molte sono diventate dei veri e propri ristoranti con tanto di tavolini e tutto il resto. Testaverde a Partanna, per esempio. Oppure la friggitoria di via Nicolò Palmeri, tra la stazione e il corso dei Mille o quella di via dei Tornieri alla Vucciria. Oppure quella di Sferracavallo, rinomatissima.
Le friggitorie di Mondello, purtroppo, non sono più quelle di una volta perché quando, insieme con le panelle, trovi il Topolino, il Cartoccio e le patate fritte surgelate con la salsa rosa, beh vuol dire proprio che non va come dovrebbe andare. Eppure proprio sulla piazza c’era una panelleria presso la quale sono approdate almeno sei generazioni di palermitani. Un «buco» piccolissimo che è stato chiuso circa tre anni fa. In compenso, nella stagione estiva ci sono gli ambulanti con la friggitoria semovente e a scartamento ridotto: solo panelle e crocchè. Serve un lapino a furgoncino, un padellone, un bruciatore e una bombola del gas. D’estate ce n’era una dal lato del Lauria e una prima del paese. Erano padre e figlio. Poi il padre morì fulminato da un ictus e il suo posto è stato preso da un altro figlio che, a sua volta, «sta insegnando» il figlio ancora bambino ma già bravissimo. D’inverno le panelle «ambulanti» migliori le frigge quello che si mette in via Arimondi davanti al Cannizzaro. Il suo lapino è stato sistemato con rara perizia ed è pieno di sportelli e sportellini con tutto quello che serve per il lavoro. Quando finisce con gli studenti del liceo l’uomo si sposta in via Laurana davanti alla sede dell’Inps che, di mattina, è «presidiata» da un altro ambulante. Poi va a Porta Felice a intercettare l’uscita degli studenti del Nautico. Nella zona di via Oreto, fino a una decina di anni fa, c’era un ambulante che usava un carretto tirato da un asino.
Insomma, questa è una città dove è «necessario» avere una panelleria in un raggio non superiore ai duecento metri. Anche se, nelle zone «tischi toschi» (la Palermo-bene) sembra di entrare in un ospedale con camici e cuffiette. Che vi devo dire? Non è la stessa cosa. Come dicono a Napoli: l’ommo ha da puzzà!
Daniele Billitteri