di Giorgio Vaiana
La geografia fa gli uomini. E se Montalcino è la culla di uno dei vini più apprezzati nel mondo è un po’ naturale che il primo Master of Wine italiano sia di lì.
Gabriele Gorelli da qualche giorno può vantarsi delle due lettere “MW” dvanti al suo nome. Un onore che mai prima d’ora era toccato ad un italiano. Lui, quasi 37 anni, dal vino era circondato. Nato a Montalcino, in una delle zone più vocate al mondo, non è stato lui ad essersi avvicinato al mondo enologico, ma il vino che lo “assediava”, come dice simpaticamente nel corso della nostra telefonata. Il “responsabile” di questa sua passione è il nonno Giancarlo Gorelli che aveva un appezzamento di terreno e 0,46 ettari piantati a Brunello, “per essere precisi”. Una produzione di vino che “non si può chiamare boutique – dice Gorelli – ma destinata al consumo casalingo”. Eppure la piccola produzione di Giancarlo Gorelli era ricercata e tutte le bottiglie venivano piazzate sui mercati chiave del Brunello. Lì tutti partecipavano a questo rito della produzione del vino “e io l’ho fatto fino all’ultima vendemmia, nel 1998. Mi sentivo un uomo di casa e insieme alla nonna, al papà e allo zio mi occupavo proprio di tutto”. Il nonno era il più piccolo del produttori dell’epoca, eppure comunicò un messaggio molto importante al nipote Gabriele: “Ero circondato dal vino – dice – e capì che desideravo approfondire questa conoscenza, non nell’aspetto produttivo, ma in quello di immagine e comunicazione. Per me il vino è sempre stato un elemento trasversale della cultura, che passa per l’antropologia, per le tradizioni, per la storia. Un qualcosa di unificatore che desideravo conoscere meglio”.
(Gabriele Gorelli)
Gorelli conoce tre lingue (inglese, francese e tedesco) e ha fondato l’agenzia di comunicazione Brookshaw & Gorelli. “Io ho iniziato nel gennaio 2011 con il corso di sommelier ad avere un approccio più professionale al mondo del vino – dice Gorelli – Poi ho voluto lanciarmi in un’altra sfida, prendendo il diploma Ais di degustatore ufficiale. E non è facile, è un esame complesso. Mi sono preparato per quasi un anno tra assaggi alla cieca e lezioni. E’ stato molto divertente. A settembre 2012 poi ho capito che non mi bastava. Desideravo qualcosa che mi permettesse di crescere sotto il punto di vista della formazione”. Il “fulmine” è stata una masterclass organizzata dall’Istituto Grandi Vini per la presentazione dell’Istituto Master of Wine: “Stiamo parlando, nononstante 9 anni fa, di un’altra epoca – dice Gorelli – Il simposio per me è stata l’occasione per avvicinarmi all’Istituto inglese e ho adorato sin da subito l’approccio piacevole, efficace e senza fronzoli”. Poi la lunga preparazione per l’esame di ammissione: “Dei 46 che ci hanno provato, siamo passati solo in 5. Ho capito che era solo l’inizio di quello che mi aspettava. Ci ho investitto tanto tempo, ma mi piaceva questa sfida”. Per Gorelli il fatto che per un Master of Wine italiano si sia dovuto attendere così tanto tempo, è legato a tre fattori: “Il primo è che in realtà sono pochissimi gli italiani che sono entrati nel programma – dice – Meno studenti italiani, meno possibilità che uno di questi finisca il corso. Poi, secondo me, c’è una sorta di apporoccio che io definisco “mediterraneo”, un po’ dominato da qualche fronzolo di troppo, che non aiuta molto a ragionare. Siamo un po’ troppo abituati a uno studio nozionistico, una cosa che è molto in contraddizione con l’approccio dei MW, che invece ti stimolano a un approccio critico. E poi, penso che siamo troppo “italocentristi”. Nel senso che beviamo poco di altri paesi e quindi conosciamo davvero poco. Faccio un esempio. Se andiamo in un ristorante di Montalcino, nella carta dei vini troveremo tantissimi Brunello, un po’ di Toscana, un po’ di Piemonte e qualche champagne. Finito. Eppure c’è tanto altro. Il problema? E’ che siamo un paese produttore di vini e non abbiamo quel piglio di curiosità, di voglia di conoscere gli stili che storicamente gli inglesi hanno tutt’ora e hanno sempre avuto”.
L’Italia resta un grande paese produttore di vini, in cui si fanno grandissime eccellenze: “Il problema è che non si riesce a comunicarle in maniera chiara e diretta – dice Gorelli – Viaggiando spesso all’estero mi sono reso conto che c’è un pensiero un po’ offuscato sul vino italiano. Abbiamo troppe denominazioni con nomi infinitamente lunghi e difficili da ricordare, non c’è un messaggio unitario, ma ancora resiste quell’approccio provinciale al mondo del vino. In effetti c’è una grandissima difficoltà sulle regioni del vino e le classificazioni in Italia. Guardate la Francia. Ha sei/sette regioni ben definite del vino. Lì i produttori fanno rete, sistema. Quello che manca a noi insomma. Bisognerebbe fare gruppo nelle denominazioni che hanno più o meno lo stesso stile, lo stesso target, mettere tutto a sistema. La grande diversità che abbiamo, ed è un pregio, forse in certi mercati diventa un difetto se non si è capaci di lanciare un messaggio che valorizzi questa diversità”. Difficile estorcere a Gorelli i suoi vini preferiti: “Ovvio che nella lista ci metto quelli della mia patria – dice – In una degustazione con dei Bogogna eccezioniali, due Brunello si sono difesi. Anzi hanno lasciato a bocca aperta gli intenditori. Magari potrei sembrare banale, ma Brunello e Barolo sono quei vini che, al di là del loro nome e della propria reputazione, nel bicchiere, insieme a vini di altissimo pregio internazionale, riescono a venire fuori”. E poi l’Etna, “uno stile che sta crescendo e che si sta affermando – dice Gorelli – con vini molto minerali, acidità e tannino un po’ assertivi. E questo territorio ha un enorme vantaggio: ha un nome facile da pronunciare e ricordare, un territorio identificativo perfettamente, un vulcano, i vigneti in alta quota, le uve riconoscibili. Ha tutto per affermarsi. Una moda? Dipende dai produttori e dal consorzio. E’ una denominazione ancora troppo giovane. E’ tutto nelle loro mani. Credo che potrà diventare uno stile simile a Brunello o Barolo. La cosa fondamentale è trasmettere sempre quel messaggio di qualità e tenere alto l’interesse. Se i produttori investiranno energie nel mantenimento di questa identità, un po’ austera, come viene percepita da fuori e con le contrade che danno il senso di essere una zona matura, l’Etna durerà nel tempo”.
Gorelli a casa ama bere vini “facili”, “ma che abbiano una semplicità intrigante”, dice. Come il nuovo stile dei Valpolicella, “uno stile croccante e salato al limite della maturità, con quella tensione elettrica che quasi nessun vino può dare a questi bassissimi tenori alcolici – dice – Un vino che parla con parole gentili, ma che ha profondità e interesse nel suo essere semplice”. E poi una previsione: “Il prossimo Master of Wine italiano? Sarà un siciliano”. E fa anche il nome: “Pietro Russo, l’enologo di Donnafugata”.