di Alessandra Meldolesi
Va di moda la brace: ormai non c’è cuoco che non abbia fatto posto a un Green-Egg in cucina, celebrando il funerale del suo Rotovapor dentro uno scatolone impolverato, sulla pista di sensazioni ancestrali dopo decenni di sbornia tecnologica.
C’è chi tuttavia quelle fiamme non le ha mai spente, alla maniera di quelli che “la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”. Ma anche rigirare arrosti e rimpinguare graticole odorose. Era il 1959 quando la fondatrice Andreina, intraprendente ostessa d’altri tempi, recentemente scomparsa, aveva fatto scoccare nel camino una scintilla, più longeva del braciere olimpico. In quella mescita di vino, famosa in zona per i salumi e la pista fatti in casa, i cacciatori portavano le prede incarnierate e se le facevano approntare sulla brace. Un fuori programma che poco a poco era diventato quotidianità, mentre l‘osteria si trasformava in ristorante. Oggi il terzo delle Marche per qualità, completezza e originalità della proposta.
Ad alzare l’asticella ha provveduto la figlia di Andreina, Ave, sommelier professionista che ha reimpostato la cantina e la sala. Soprattutto il nipote Errico Recanati, che si è ormai ritagliato il ruolo di Etxebarri nostrano. Partito con il diploma di agraria e l’intenzione di laurearsi veterinario, bazzicando fin da piccolo la sala, aveva notato mangiando in giro che il punto debole del ristorante era la pasticceria: “Dappertutto assaggiavo dolci bellissimi, tranne che da noi. Quindi mi sono iscritto a qualche corso all’Étoile, poi ho fatto le mie esperienze in giro, da Leemann, Vissani, Dalsass. Volevo esplorare il vegetale; poi a Baschi c’era questo mostro sacro ed è stato bellissimo arrivare in una cucina tirata a lucido, in mezzo a una sfilza di cappelli immacolati. Finché non ho raggiunto i miei, il nonno allo spiedo, la nonna alle cotture e alla cacciagione”. È il 2002, la brigata comincia a strutturarsi e i metodi di cottura pian piano si evolvono, senza sradicarsi da un ubi consistam rovente: il concetto brace. Tre anni dopo Errico è già chef, stellato dal 2013.
(Tacos)
Ma la sua formazione continua: nel 2019 è con Albert Adrià da Tickets ed Enigma, l’anno precedente con Quique Dacosta. “Ogni anno cerco di trascorrere una decina di giorni da un collega; mi affascina particolarmente la Spagna, per l’attenzione maniacale e la semplicità di quello che fanno e di come lo fanno. Da Albert Adrià in particolare ho trovato una creatività e un’organizzazione mostruosa”. Nel frattempo anche il locale cambia: nonostante la superficie generosa, i coperti non superano le tre dozzine, con un ampio giardino soleggiato che immette nella campagna; all’ingresso resta il sancta sanctorum dello spiedo a vista, come ai tempi di Andreina, come in un tableau vivant. Solo che adesso appeso c’è un po’ di tutto, oltre il solito arrosto. Mentre il grosso delle preparazioni si fa dietro e nel laboratorio di pasticceria e pasta fresca.
La cucina conta nel suo genere fra le più divertenti d’Italia: neoantica, ma anche neorurale, un firewalking intrepido senza punti di approdo, se non la perenne ricerca del gusto. Parte dalle materie prime, in larga parte autoprodotte nell’orto della casa, grazie all’aiuto di un signore. Passa per il bricolage con un fabbro di Loreto, insieme al quale sono stati realizzate aggiustature decisive come le retine fini per l’affumicatura degli elementi sottili e i cappelli tipo cloche, che da quattro anni vengono posti sopra l’alimento, in scala rispetto alla grandezza del pezzo, in modo da concentrare e dosare attraverso il distanziamento il fumo, che sale, si ferma e raffreddandosi scende. Approda a sensazioni deflagranti e pienamente contemporanee, per quanto radicate nella memoria.
(Ostrica)
I menu degustazione sono due: Fumo e Fiamme, il primo dedicato alla brace, il secondo più creativo con le ultime prove, rispettivamente a 95 e 120 euro. In abbinamento c’è una carta dei vini da 400 etichette, con il meglio e il nuovo delle Marche, tanti naturali e un po’ di Francia. Ed è già ottimo il cestino del pane a lievito madre, con la pagnottella di segale, la pizza al formaggio, la cialda ai semi di lino, il tarallo con mandorle e pepe, la focaccia di senatore Cappelli. Perfino irresistibile al sopraggiungere di burro affumicato e lardo fatto in casa cosparso di semi. Nel tempo si è decantato qualche classico: per esempio le olive all’ascolana nel loro kit fai da te, con la nocciola di carne cruda battuta, la farina di oliva tenera ascolana disidratata, il crostino fritto. Dove il gioco interattivo sta nello shakerare la carne nella bustina della polvere per poi adagiarla sul pane.
Soprattutto la cacio e pepe alla brace, che alcuni reputano la migliore d’Italia. È nata 4 anni fa da una montagna di prove, tutte le marche, tutti i formati, tutte le cotture e le loro combinazione. Fino alla soluzione finale: lo spaghettone Benedetto Cavalieri, l’unico idoneo per tenuta e grano alla triplice, anzi quadruplice cottura. Si tratta innanzitutto di precuocere la pasta per 5 minuti in acqua bollente, poi di passarla per lo stesso tempo a 60 °C, in modo da disperdere l’amido, raffreddarla in acqua fredda, asciugarla, passarla per 9 minuti alla brace con l’ausilio di una griglia fine e un cappello, mantecarla infine in padella con Parmigiano 24 mesi da vacche bianche, pecorino di fossa Emilio Spada e una cuvée di sette tipi di pepe (pepe di Timut nepalese, pepe lungo dell’Himalaya, pepe verde vietnamita, pepe selvatico del Madagascar, pepe bianco indonesiano, pepe nero di Sichuan e di Sarawak), che punta sull’aromaticità più che sul piccante, allunga e previene la stanchezza.
(Faraona)
Oppure l’ormai celebre faraona cotta da lontana, volatile marchigiano appeso sulla brace la mattina, per una “frollatura forzata” attraverso il calore e il fumo, previa spennellata di burro salato, che lo rende più tenero e profumato; poi smontato in cosce e petti e finito sulla griglia a 35 cm dal carbone. Dopo un giorno di preparazione, va sul piatto con estratto di salvia e radice amara, alias scorzonera.
(Porcino)
Ma il fumo qui tocca qualsiasi cosa; il focus, in particolare, si sta spostando sul vegetale, dove il margine di creatività è ampissimo. Vedi il porcino, servito con una “bottarga” di milza di agnello, che con la liofilizzazione acquista uno spiccato sentore di porcino secco. Naturale, quindi, grattugiarla su un fungo vero, ovviamente alla brace, con l’aggiunta di paté di fegato di piccione e di foie gras per la grassezza, ostrica cruda di Portonovo per l’acquosità e la sapidità mancante. Non a caso, verrebbe da pensare, nella cucina regionale sono ingredienti abbinati (leggi finanziera) per qualche sorta di chimica intuitiva; ma qui l’elemento animale è complemento anziché protagonista.
E il fumo non risparmia i dessert: vedi il gelato di banana alla brace, dove il frutto completo di buccia è tagliato a metà, ricoperto di zucchero e lasciato in cella per una notte, in modo che rilasci uno sciroppo naturale dolcissimo. Viene quindi caramellato alla griglia, mantecato e servito con una finta banana di ganache al cioccolato.
Ristorante Andreina
via Buffolareccia, 14 Loreto (AN)
tel. 071/970124
chiuso: martedì
ferie: variabili
carte di credito tutte
parcheggio: si