(Roberto Rubino)
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
di Roberto Rubino*
Il mercato della birra è in forte crescita. I birrifici artigianali sono ormai una realtà diffusa e si parla già di birrifici agricoli. Faccio subito una premessa. Io mi sono sempre occupato di latte e formaggi e non avrei titoli per scrivere un articolo sulla birra. E non è quello che farò. Nel corso dei miei studi sul latte ho dovuto presto dare una risposta ad una domanda per me dirimente: il latte è tutto uguale? Se il prezzo è mondiale, se l’allevatore non ha strumenti per contrattarne il valore e se il prezzo non è mai legato alla qualità, allora non ha senso parlare di agricoltura e di territorio. Tutto sarà uguale e tutto viene deciso in sede industriale. Ma se non è tutto uguale, quali parametri ci aiutano a misurare la differenza? Il mondo del latte ha optato per proteina e grasso, quello del grano ha scelto la proteina. Ma questi sono solo parametri tecnologici che permettono di appiattire e livellare la qualità della materia prima. Invece, essendo alimenti, noi li scegliamo perché ci piacciano e per il loro valore nutrizionale. E allora il valore edonistico dipende dall’odore e dal gusto e le molecole che ne sono responsabili sono le componenti volatili quali i terpeni, gli esteri, le aldeidi, ecc. e i polifenoli. Queste molecole sono anche in gran parte responsabili del valore nutrizionale. Da quali fattori dipendono i livelli qualitativi di tutte queste molecole? In linea di massima, dal livello produttivo, dalla resa per ettaro. Un po’ come succede nell’uva. E se questa regola è valida per il latte deve essere valida per tutti gli altri alimenti.
Con queste premesse, possiamo ora parlare di birra. Le materie prime utilizzate per la sua produzione sono ben due: l’orzo e il luppolo. Ma anche qui la formazione del prezzo non cambia. Soprattutto nell’orzo. Se assicuri una corretta calibratura dei chicchi, il prezzo è garantito dal contratto e l’allevatore è incentivato ad elevare al massimo la resa per ettaro. Nel luppolo il prezzo risente del prestigio e della specificità della varietà, ma comunque, all’interno di ciascuna di esse, il risultato non cambia: produrre il massimo per aumentare il profitto. Nel mondo del latte, della carne, del grano, questo modello ha avuto come effetto sia una deriva della qualità, ormai l’insapore e l’inodore sono ospiti fissi a tavola, e sia che il livello qualitativo è diventato un fatto casuale, visto che non si dominano né i parametri responsabili della qualità e né i fattori che li determinano. Sarà lo stesso per la birra? Se Atene piange Sparta non ride. Anzi, da queste parti l’agricoltura conta ancora meno. I 4 volumi delle Edizioni Lswr: “Gli ingredienti della birra”, sono dedicati rispettivamente a: luppolo, lieviti, malto e acqua. Dell’orzo se ne parla en passant, per elencare i nomi delle varietà più utilizzate.
Ma se la materia prima non partecipa all’elaborazione della qualità finale, come arrivano i birrai a confezionare l’aroma della birra? Le note odorose vengono demandate ai lieviti e può capitare un bouquet di frutta esotica come il più classico dei vini bianchi, e in minor misura ai luppoli, soprattutto quelli americani, più fruttati. E i polifenoli, responsabili del corpo, della lunghezza e del retrogusto, e accreditati come i più potenti antiossidanti? Non ci sono e, se sono presenti, lo sono all’insaputa del birraio. O meglio, un poco arrivano dai luppoli, ma la quasi totalità dei birrai usa il Pvpp, il polivinilpirrolidone, uno stabilizzante per evitare precipitati tannoproteici. Ecco perché la birra non ha corpo e se ce l’ha, lo ha affidato alle destrine, zuccheri che vanno a bilanciare l’amaro dei luppoli per lasciarci la bocca dolce. E pensare che per anni la pubblicità ha accreditato la birra come mezzo più sicuro per arrivare a cento anni. Nel frattempo hanno di proposito rinunciato ai polifenoli, potenti antiossidanti per affidarne il ruolo agli zuccheri, meno raccomandabili.
“La quantità di polifenoli che rimane in molta della birra prodotta in tutto il mondo è drasticamente ridotta negli ultimi cinquant’anni a causa dell’introduzione di estratti di luppolo e prodotti isomerizzati”, scrive Stan Hyeronymus nel suo libro, “Il luppolo”, e, aggiungo io, dalla riduzione sistematica del contenuto di polifenoli nell’orzo, per effetto delle alte rese per ettaro. Quindi, al momento, non si può dire che la birra sia un prodotto agricolo, legato al territorio, perché l’orzo non ha alcun ruolo e per l’assenza o latitanza dei polifenoli, molecole che più risentono dei fattori ambientali. Ma, perché no, può essere l’unica alternativa possibile per chi cerca strade nuove e con un approccio diverso, più vicino alla realtà in cui vive.
*presidente Anfosc, Associazione nazionale formaggi sotto il cielo