di Alessandra Meldolesi
Poteva restare un miracolo isolato quello di Massimo Bottura, laureato miglior cuoco del mondo dalla giuria dei “World'5 50 Best Restaurant” nel 2016, quando si era appena conclusa Expo, evento dal prepotente effetto induttore, che ha portato l’Italia alla ribalta e il mondo in Italia.
“Nutrire il pianeta” era il tema che, correggendo decenni di gastromania egotistica ed edonistica, detronizzava lo chef in favore di un diverso approccio al cibo, di stampo etico e politico. Ma il 2015 è stato anche l’anno di nascita del primo refettorio, mensa per i poveri allestita da grandi artisti con chef di fama ai fornelli e prodotti di recupero in dispensa, presto diventata virale. Dopo Rio, il contagio si è esteso a Bologna e Modena, Napoli e Londra, Parigi e gli Stati Uniti. Cogliendo un bisogno diffuso che il grande chef di Modena ha interpretato al meglio. Non più il bello è il buono, ma il buono è il buono, nel senso della coincidenza fra etica e ricerca gastronomica. La sincronicità non è casuale: sono le istanze di Expo che Bottura ha arditamente immesso nel mondo patinato dell’alta cucina, dove la povertà aveva sempre rappresentato un tabù. Un’intuizione dirompente in tempi di recessione economica e creativa, quando sembra che tutto sia stato tentato, la povertà dilaga insieme al senso di colpa del lusso.
A prescindere dallo straordinario spessore di una cucina, che ha oltrepassato lo stile tecnoemozionale della giovinezza, in favore di una maturità umanistica e prettamente italiana e da un gusto sempre più netto e affilato, non meno contrastato della società tutt’intorno, la conferma di Bottura nel 2018 dice che la tendenza è destinata a durare e che in assenza di innovazioni, la partita può giocarsi su altri campi. Ancora una volta sul modello delle arti maggiori, non simulate mimeticamente ma squadernate nel loro modus operandi, perché la tendenza è globale. Michelangelo Pistoletto notava di recente che “ormai la libertà individuale del creativo è divenuta accademia, diffusa in tutto il mondo e pare non esserci più una nuova avanguardia. Personalmente ritengo invece che un’avanguardia si stia affermando all’inizio del terzo millennio: consiste nel passaggio dall’autoreferenzialità dell’arte alla cooperazione e interazione della stessa con i vari settori della società, nella ricerca della sua trasformazione”. Anche gli chef possono essere “artivatori”, che contribuiscono alla “geografia della trasformazione”. Sembrava una frontiera impossibile, invece è saltata.
Le grandi tavole sono tante, troppe, e sparse in tutto il mondo. In questo scenario orizzontale e complesso la cucina cucinata non basta più per mantenere un’egemonia mediatica: Bottura l’ha capito e ha vinto in un ristorante elegante ma raccolto, senza pirotecniche architettoniche o nel servizio, tecniche da “wow” o provocazioni eclatanti. Per la cucina italiana è già effetto volano, seppur in uno scenario un po’ ingolfato: avanzano Alajmo e Romito, tiene sostanzialmente Crippa, anche se qualche outsider meriterebbe l’ingresso, secondo l’originario spirito anti-michelin dei 50. Ieri Lopriore, oggi forse Camanini. Per una cucina a contenuto tasso tecnico, che non dispone dei bracci economici e istituzionali di altri, come la nostra, è la vittoria dell’intelligenza e un avanzamento nell’immaginario. Anche se di Bottura probabilmente ne resterà uno solo.