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Il personaggio

Il sommelier autodidatta che lavora in uno stellato: “Bisogna saper fare oltre gli schemi”

20 Giugno 2018
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Claudio D'Alessandro è tornato nella “sua” Palermo e al Bye Bye Blues di Patrizia Di Benedetto. E si racconta: “Non sono contrario ai diplomi di sommelier, ma penso che il vino sia un modo di comunicare e il metodo migliore per apprenderlo è fare esperienza, sul campo”


(Claudio D'Alessandro)

di Francesca Landolina, Palermo

Trentasette anni, palermitano doc, Claudio D’Alessandro si racconta a Cronache di Gusto. Dal 2010 sommelier al Bye Bye Blues di Mondello, ristorante della stellata Michelin Patrizia di Benedetto, dopo una anno di lontananza, fa ritorno in quella che dice essere la sua “casa”, il luogo di lavoro in cui ritrova se stesso e il piacere di esercitare la sua professione.

La passione per il vino nasce per caso. Gli studi all’istituto alberghiero di Palermo. Un primo stage al ristorante Charleston di Mondello ed intuisce che c’è un cammino da intraprendere per accrescere la conoscenza e migliorarsi sempre più. “Nel corso della mia carriera, devo tanto a Umberto Giraudo maitre del ristorante La pergola di Roma – racconta- Lui è stato il mio mentore, perché mi ha spinto ad andare oltre le regole e la formalità di schemi e pregiudizi in sala. Grazie a lui, sono rimasto colpito e affascinato dall’arte dell’accoglienza, dalle movenze eleganti, dal tono di voce, dall’approccio culturale e fuori dagli schemi”. Sulla formazione alberghiera afferma: “E' solo un piccolo passo, ma il resto della strada si costruisce camminando e dotandosi di curiosità: quella fame di conoscenza che ci porta al miglioramento continuo. Questo è il nostro lavoro. Giraudo mi è servito come esempio, per superare le regole da approcci stile francese, troppo classiche. Mi ha permesso di acquisire fiducia nelle mie capacità e di osare. La preparazione di un sommelier e di chi è responsabile in sala si misura attraverso un saper fare che va oltre gli schemi. Bisogna conoscere per trasmettere, anche i dettagli di ogni oggetto che si posa sulla tavola. E poi, cosa importantissima, ciò che rende migliori agli occhi dei commensali e anche dei colleghi è la genuinità, cioè quella spontaneità che ti fa essere sempre te stesso, dentro e fuori il contesto lavorativo. E che non ti fa indossare maschere nel momento in cui ti metti la giacca”.

Claudio è autodidatta, il suo mestiere lo ha imparato, e continua a farlo, girando il mondo e facendo esperienza, visitando cantine, produttori  e ristoranti. “Non sono contrario ai diplomi da sommelier – afferma – ma penso che il vino sia un modo di comunicare e il metodo migliore per apprenderlo è fare esperienza, sul campo”. Il Bye Bye Blues? “Per me è casa. Il luogo che mi fa stare bene e in cui riesco spontaneamente ad esprimermi”. Le sue migliori bevute? ”Sono filo-francese amo i vini eleganti e muscolosi, i tagli bordolesi, il Cabernet Sauvignon e il Merlot. In Sicilia, resto un amante del Nero D’Avola nelle sue declinazioni più classiche”. Le sue migliori soddisfazioni? “Per me non c’è niente di più appagante di un cliente che torna e ti chiama per nome. Questa è prova del fatto che c’è un vero talento da coltivare in questo mestiere: riuscire ad essere mentalmente liberi, avere la libertà di osare e di andare controcorrente. Ci sono clienti che si affidano a te, allora bisogna saper domandare con naturalezza, in modo che essi stessi si raccontino, bisogna intuire gusti e preferenze”. Al Bye Bye Blues il suo compito è anche quello della gestione del personale di sala. “Il servizio in sala non va mai sottovalutato, perché è importante tanto quanto quello della cucina. Il cliente cerca di star bene e per questo conta tutto, anche i dettagli in apparenza irrilevanti contano”.

Sui clienti di quella che dice essere la sua casa, il Bye Bye Blues, offre un identikit. “Qui arrivano da tutto il mondo per provare la cucina di Patrizia Di Benedetto. In sala, i tedeschi sono da seguire con maggiore cura, si guardano molto attorno, scrutano, osservano. I francesi sono maniacali con il servizio. Gli americani più friendly e leggeri, mentre con gli orientali è d’obbligo la riservatezza nel servizio. Gli italiani così come i siciliani sono meno schematici, direi camaleontici, ti può capitare il cliente che gradisce perfino la pacca sulle spalle come saluto, oppure il cliente che vuole mantenere distanza”. Sul futuro si dice positivo: “Spero di continuare a fare del mio meglio. Mi ritengo fortunato perché faccio un lavoro che amo e non mi annoio mai. Non mi mancano gli stimoli e spero di mantenere sempre viva la mia curiosità. Questo auguro a chi vuole fare il sommelier, riflettendo, tuttavia, sul fatto che oggi, secondo me, sono troppo pochi i giovani che si avvicinano a questo mestiere, forse ancora poco insignito dello status professionale. Ci sono ragazzi che scelgono di fare i camerieri come ripiego in attesa di un lavoro. Mi sembra assurdo.  Vorrei che si accrescesse la conoscenza e che cambiasse il modo di pensare, fin dalla formazione scolastica, perché  questo lavoro offre molte soddisfazioni, ti permette di aprirti al mondo e ti rende felice. Se poi, strada facendo, hai la possibilità di lavorare presso un ristorante di altissimo prestigio, allora ti rendi ancora più conto della fortuna che sperimenti”.