di Daniele Cernilli, Doctor Wine
Mio nonno, che si chiamava Erminio Spalla e circa un secolo fa fu campione d’Europa dei pesi massimi di boxe, scrisse un libro con il titolo “Per le strade del mondo”, raccontando dei suoi combattimenti e dei suoi viaggi all’epoca molto avventurosi in molte parti del mondo.
Nel mio piccolo, giro molto anch’io, non per prendere a pugni il prossimo, uno in famiglia basta e avanza, ma per raccontare il vino italiano in diversi Paesi. Così negli ultimi due mesi mi è capitato di andare a Londra, a Montreal, a New York, a Napa, a San Francisco e a Los Angeles, come sa chi mi ha seguito su Facebook. Ho fatto molte conferenze cercando di spiegare vini e zone di produzione, i cosiddetti “territori”, e ho incontrato più di mille persone fra appassionati, addetti ai lavori e rappresentanti della stampa locale. Qualche idea me la sono fatta sullo stato delle cose, insomma.
La prima è che dobbiamo ricominciare a parlare di geografia, se vogliamo davvero raccontare le specificità dei nostri vini e la grande abbondanza di vitigni tradizionali. Non è affatto scontato, e sarebbe un errore considerarlo tale, che gli interlocutori sappiano dove sono località, magari famose per noi, ma del tutto esotiche e sconosciute per altri. Montefalco, Cirò, Scansano, sono spesso nomi di località ignote anche a chi abbia una minima infarinatura sui vini italiani, e cito queste tre solo a titolo di esempio, perché ce ne sarebbero molte altre. Così come Marche, Basilicata o Alto Adige se volessimo parlare di nomi di regioni o di province autonome. E del resto, quanti da noi sanno cosa sono la Mortington Peninsula, Santa Rita, Central Otago o Paarl, zone famosissime rispettivamente dell’Australia, California, Nuova Zelanda e Sud Africa? Se noi non le conosciamo, perché mai abbiamo spesso la pretesa che gli altri conoscano noi? Siamo più bravi e più belli?
Quindi gli educational, vere e proprie lezioni di base, introduttive, ovviamente fatte in buon inglese, sono fondamentali per tentare di comunicare qualcosa di sensato, molto più dell’abilità degustativa. E la produzione di materiali visivi, da usare durante le conferenze, da mettere in rete, da regalare ai presenti su una chiavetta Usb altrettanto.
Ancora. Le “istruzioni per l’uso”. Non è affatto detto che sia noto come usare, come servire, come abbinare, come fare invecchiare molti vini “territoriali” dei quali quasi nessuno sa nulla. Noi sappiamo che un Aglianico del Vulture, un Taurasi, un Castel del Monte Aglianico, possono invecchiare bene e vanno abbinati con delle carni cotte a lungo. Per molti appassionati esteri si tratta di vini esotici, che non hanno mai o raramente assaggiato. Sono delle vere novità, possono essere interessanti, ma non ne conoscono le caratteristiche. Allora un buon modo di attirare l’attenzione è proprio suggerendo abbinamenti con i cibi locali, che conoscono bene, introducendo, oltretutto, una tematica che sta muovendo solo ora i primi passi nei Paesi di tradizione anglosassone e anche nel Far East. Legare il vino al cibo è senz’altro un’idea vincente e sfatare la negatività che sta nella definizione “it’s a wine for food” con la quale alcuni sussiegosi esperti internazionali liquidano spesso i vini italiani, è molto importante.
Ultima osservazione. Se l’Italia è nota nel mondo è per la sua storia e per l’arte che ha espresso nei secoli. Molti vini sono prodotti in zone emblematiche per questi motivi. Il Carmignano deriva dal luogo di nascita di Leonardo da Vinci e ha a che vedere con la famiglia de’ Medici, il Barolo è il vino dell’unità d’Italia, le ville palladiane sono accanto alla zona dei Colli Euganei, Castel del Monte è stato realizzato per volere di Federico II di Svevia, Cirò è un vino antichissimo e nella zona si produce da trenta secoli. Nessuno al mondo può raccontare cose simili e vi assicuro che è ben più importante che parlare di tannini, di antociani e di gusto “minerale”.