L’INAUGURAZIONE
Riaperti dopo 16 anni i cancelli della cantina Kaggio in provincia di Palermo. La struttura, confiscata alla mafia, è stata consegnata al consorzio Sviluppo e Legalità e sarà un centro di sperimentazione
Il vino del riscatto
Negli anni Settanta e Ottanta, nella cantina Kaggio, Totò Riina e Bernardo Brusca producevano il vino dei boss. Era un misto simbolico di uva e sangue. Vita e morte. A breve quella stessa struttura servirà a promuovere il vino e gli altri prodotti delle cooperative sorte sui terreni confiscati alla mafia.
A lanciare la scommessa, che ha il dolce gusto del riscatto, sono stati ieri mattina i rappresentanti dello Stato giunti in contrada Pietralunga, in territorio di Monreale, ma a pochi chilometri da San Cipirello, dove sorge l’ex cantina. Alla presenza del prefetto di Palermo Giancarlo Trevisone, il sindaco di Monreale Filippo Di Matteo ha consegnato la chiave dei cancelli al presidente del Consorzio Sviluppo e legalità, Tonino Giammalva. Cancelli riaperti “simbolicamente” proprio dopo 16 anni dalla chiusura. Perché alla cantina Kaggio tutto era un simbolo. Costruita lungo la provinciale che collega Corleone con San Cipirello e San Giusepe Jato. A metà strada fra i Riina e i Brusca. Perché la Kaggio era anche luogo di incontri. Il simbolo di un potere visibile e fino ad allora incontrastato. Ma nel ’93 arrivò il sequestro. E quattro anni dopo la confisca. La mafia sembrava in ginocchio. Piegati dai colpi di uno Stato che seppe reagire all’offensiva stragista. Poi seguirono dieci anni di amministrazione giudiziaria, durante i quali la cantina venne saccheggiata su “commissione”. Sparirono i macchinari e rimase solo il ferro dei silos mai utilizzati. “Oggi la struttura di 15 mila metri quadri – spiega Lucio Guarino, direttore del Consorzio – vale appena 650 mila euro”. Deprezzato dall’incuria e dai saccheggi, il simbolo dell’abbandono sembra però destinato ad un progetto di rilancio del territorio attraverso il vino. Una convenzione con l’Istituto regionale della vite e del vino, l’Università di Palermo e l’Esa servirà, infatti, a far nascere una struttura polifunzionale che punta alla formazione, sperimentazione e promozione del vino Doc prodotto nei vigneti del Monrealese. Ieri mattina a ripulire e colorare di speranza l’ex simbolo di mafia c’erano anche i tanti volontari dei campi antimafia “Liberarci dalle spine”, venuti da Toscana ed Emilia Romagna. Ad organizzarli sono Arci e Libera che anche quest’anno porteranno oltre 500 volontari a lavorare sulle terre confiscate. “Nei prossimi giorni – racconta Maurizio Pascucci, dell’Arci Toscana – cominceremo la vendemmia”. Il sudore, la fatica e la passione dei giovani venuti dall’Appennino servirà a fare aumentare quella vitamina della legalità che dicono sia contenuti nei vini della linea “Centopassi”, così come in tutti i prodotti provenienti dalle terre strappate alla mafia: olio, pasta e legumi che conservano quel fresco sapore di legalità.
Leandro Salvia