VI RIPROPONIAMO L'ARTICOLO DELLA NOSTRA VISITA AL RISTORANTE MIRAZUR, FATTA QUASI DUE ANNI FA
Lo chef del Mirazur di Mentone come non l'avete mai letto: dalle donne al ruolo della memoria, dai progetti futuri alle origini argentine
(Mauro Colagreco – ph Mirazur.fr)
di Fiammetta Parodi, Mentone (Francia)
Mauro Colagreco è lo chef e patron del Mirazur di Mentone, cioè di quello che oggi, secondo la classifica World's best restaurant, è il primo ristorante di Francia e quarto al mondo.
Non servirebbero altre presentazioni, ma, se ce ne fosse bisogno, aggiungeremmo anche due stelle Michelin, il titolo di Grand Chef Relais & Châteaux, il premio “Rivelazione dell’anno” di Gault Millau, la prestigiosissima onorificenza di Chevalier des Arts et Des Lettres (assegnata a chi si è distinto in campo artistico e già conferita, per citare solo qualche nome, a Rudolf Nureyev, Uma Thurman, Philip Glass e Tim Burton) e una notorietà televisiva come temibile giudice del programma Top Chef Italia. Tutti questi successi – conseguiti ancora trentenne (oggi ne ha appena compiuti quarantuno) – potrebbero legittimamente far presagire, nella migliore delle ipotesi, una persona piuttosto piena di sé, o – nella peggiore – un borioso chef egocentrico e accentratore. E invece no.
Quando lo abbiamo incontrato nel suo splendido Mirazur, un edificio razionalista riadattato ai canoni contemporanei e arroccato tra le montagne rosa che sovrastano Mentone il mare blu della Costa Azzurra, delle caratteristiche che ci attendevamo abbiamo ritrovato solo l’energia vulcanica e la creatività fuori dal comune. Perché Colagreco è, soprattutto, un uomo generoso e sentimentale, legatissimo alle tradizioni, ai ricordi e alla terra – quella del suo orto, voluto proprio nel giardino di casa, in cui inizia ogni giornata e che approvvigiona il ristorante -, aspetti che trasfonde nella filosofia del Mirazur (dove, ad esempio, i commensali sono invitati, da una poesia di Neruda, al rito del “pain de partage”, cioè a spezzare e condividere il pane caldo da intingere nell’olio allo zenzero e limone) e nella sua cucina, legata in modo quasi maniacale alla stagionalità dei prodotti esclusivamente locali, senza compromessi: se non è periodo di pomodori, al Mirazur non troverete pomodori. Punto.
Visto che la sua biografia (nato in Argentina da famiglia di sangue italo-basco) e i suoi piatti geniali si possono trovare comodamente su internet (ma almeno uno ve lo sveliamo: la lisca di sardina fritta accompagnata da scorza di limone di Mentone candita, servita su una pietra marina, tanto folle al pensiero quanto estatica al palato), così come i suoi esordi (alla scuola Gato Dumas di Buenos Aires) e i suoi maestri (tra i vari, i due grandi Alain: Passard e Ducasse), nella nostra lunga chiacchierata abbiamo optato per domande meno didascaliche e più intime, e lui ha acconsentito di buon grado all’esperimento. Abbiamo quindi parlato poco di stelle e molto di terra. Più di errori che di successi. Di ispirazione e di futuro, ma anche di infanzia e memoria. Non di caviale (protagonista di uno dei suoi piatti simbolo, il carpaccio di barbabietola Crapaudine coltivata due anni con salsa di panna artigianale e uova di storione Osetra), ma di pomodori. Di maestri e mentori, ma soprattutto di famiglia, amici e donne (ai fornelli).
Si riconosce nella definizione del suo stile come “mediterraneo”? C’è spazio per un po’ di Argentina in questo suo Mediterraneo?
“Ridefinirei la mia cucina “mediterranea di cuore”. Mediterranea perché lavoriamo esclusivamente con materie prime locali di questa zona benedetta dal punto di vista della qualità produttiva; di cuore, e d’istinto, perché il trovarsi sulla linea di confine tra Italia e Francia – due potenze gastronomiche – e tra mare e montagna mi ha dato potenti stimoli gastroculturali. Provenire da un paese molto lontano mi ha permesso di saltare da una parte all’altra del confine con grande libertà, senza condizionamenti, con una visuale molto lucida e distaccata e una curiosità per aspetti e suggestioni che chi è nato qui dà per scontati e spesso non vede. Il risultato è una cucina mediterranea molto personale, che racconta un territorio già raccontatissimo con una visione nuova, pulita e vergine. Per quanto riguarda l’argentinità, devo confessare che in un primo momento l’ho un po’ rinnegata, per evitare di essere etichettato, appunto, come lo “chef argentino”. Oggi invece, dopo aver ottenuto riconoscimenti importanti, la lascio emergere con più indulgenza, ad esempio nelle tecniche di cottura alla brace che noi argentini abbiamo nel sangue.”
Paragonando la cucina alla musica, come nasce un grande piatto? La melodia emerge prepotentemente nella sua testa e deve subito tradurla su uno spartito, oppure è un procedimento più controllato, in cui lei si siede alla scrivania (o ai fornelli) e pensa “adesso cosa mi invento”?
“Dipende. Può accadere che l’ispirazione mi folgori mentre sono intento a fare tutt’altro, oppure che io mi sforzi e la faccia emergere in modo più razionale e controllato. Può scaturire dai viaggi, quando entro in contatto con nuove culture, prodotti e tecniche, o, molto spesso, dalla materia prima: al mercato e nel mio orto, cioè nei miei laboratori, vedo gli ingredienti, li tocco, li assaggio, e tutto ha inizio. Ma la fonte principale della mia creatività sono certamente i ricordi dei sapori della mia infanzia in Argentina, nella casa di campagna della mia adorata nonna Amalia, sublime cuoca di sangue basco: stava in cucina dalla mattina alla sera, col suo sorriso contagioso, in un vortice di sapori e profumi inebrianti che mi emozionavano, di cui ho un ricordo molto netto e che cerco di ricostruire nei miei piatti. Rincorrendo i ricordi, quindi, creo piatti molto emotivi ma corro anche dei rischi, perché può capitare che non siano tecnicamente perfetti e restino in menu un solo giorno. È una scelta consapevole: preferisco un’esistenza con alti e bassi che piatta e priva di passioni e ciò si traspone nella spontaneità della mia cucina, frutto di un’alternanza tra miracoli che fanno nascere il piatto della vita e qualche errore.”
Si chiede spesso ai grandi chef della loro formazione, ovviamente importantissima. Sappiamo che i suoi padri nobili sono, tra gli altri, Passard e Ducasse. Ma quanto è invece importante per lei essere anche cliente; semplicemente: mangiare, mangiare da altri?
“Ad alcuni cuochi non piace frequentare altri ristoranti perché hanno paura così di contaminarsi, di inquinarsi. Io non temo affatto questo rischio, anzi, credo che, proprio come un pittore, per uno chef sia importantissimo conoscere il lavoro altrui: la cucina è una forma d’arte, e l’arte è condivisione, evoluzione, scambio (proprio in questa ottica, dal 22 al 26 novembre, Colagreco scambierà il suo ristorante con quello dello chef e amico messicano Jorge Vallerjo a Quintonil, ndr). Inoltre, per la formazione di uno chef è fondamentale mettersi al posto del cliente e provarne le sensazioni, dimenticarsi di essere cuoco e approcciarsi ai piatti in modo più ingenuo, quasi infantile. Certo, non sempre è facile disattivare “l’occhio clinico”, ma quando ci riesco, senza ragionare troppo, mi diverto molto: sono un uomo profondamente innamorato del cibo e della vita, e credo sarebbe un’ingiusta punizione privarsi delle emozioni di una buona cena.”
Si dice che nello studio del grande regista Billy Wilder vi fosse una targa che recitava: “Come lo avrebbe fatto Lubitsch?” (iconico regista tedesco degli anni ‘20, ndr). Se ve ne fosse una nella sua cucina, che nome ci sarebbe? Vale anche Mauro Colagreco, anche se ho la sensazione che non lo dirà.
“Io ammiro il lavoro di molti miei colleghi, ma penso che, se dovessi scegliere un unico nome, sulla mia targa ci sarebbe quello di Massimo Bottura. Nessuno come lui è in grado di cogliere l’essenza di ciò che abbiamo sotto gli occhi ma che noi non vediamo: riesce sempre a sorprendermi, a farmi dire “perché non l’ho pensato prima io?!”. È un genio.”
Sul sito del Mirazur troviamo la pagina “gli indirizzi di Mauro”, dove consiglia fornitori e ristoranti nei dintorni. È piuttosto insolito, quasi un manifesto di rifiuto al narcisismo e all’egocentrismo.
“Sì l’idea è quella. Mi ritengo una persona generosa: chi viene da noi di solito è in vacanza e non siamo certo così egoisti e autoriferiti da pensare che esista solo il Mirazur, anzi, siamo felici di condividere con i nostri clienti segreti e i posti che amiamo. Se poi, con questi consigli, possiamo al contempo aiutare i nostri amici e le loro attività, cosa posso chiedere di più? La condivisione dà un senso alla vita.”
La sua estasi culinaria, cioè il sapore della vita, impresso nel cuore, che vorrebbe riassaggiare alla sua ultima cena?
“Anche questo è legato ad un ricordo d’infanzia: quando da bambino andavo a trovare i nonni in campagna, Nonno Oreste, marito di Amalia, mi portava nell’orto e mi faceva assaggiare i suoi pomodori direttamente dalla pianta. Ho una memoria vivissima di quel sapore straordinario, per me migliore del più pregiato dei caviali, che ho ricercato invano per decenni e ritrovato solo nei pomodori che oggi coltivo nell’orto del Mirazur. Quindi posso dire che, senza dubbio, alla mia ultima cena mangerei un pomodoro appena colto, con un filo di olio di oliva e sale marino.”
Tra primi 50 chef al mondo troviamo solo due donne. È quindi vero che – considerazione politicamente scorretta – la cucina sia cosa da donne, ma l’alta cucina da uomini?
“Non credo sia una questione di attitudine o di capacità, anzi. Amo molto le donne in cucina, sono bravissime e hanno una sensibilità e una finezza che agli uomini spesso manca, infatti per sette anni la mia sous-chef è stata una giapponese. Le donne hanno un rapporto col cibo più naturale, istintivo e amorevole degli uomini: danno la “primera comida” a tutti gli esseri viventi e forse è proprio questo loro richiamo fisiologico alla maternità, che le rende tanto speciali, ad ostacolarne una carriera d’eccellenza tra i fornelli. Il nostro è un lavoro durissimo e iper impegnativo, nel quale viene sacrificata buona parte della propria vita privata, e ciò avviene proprio negli anni in cui una donna sente il richiamo della maternità, così potente da superare ogni altro appello.”
A proposito, qual è la giornata tipo al Mirazur?
“Inizia verso le sette di mattina nel luogo che mi fa stare meglio, il mio orto, che infatti circonda la casa dove vivo e mi dà grande energia e tranquillità. Alle otto e mezza sono in cucina con lo staff per organizzare la mise en place per il pranzo e poi al mercato con il mio chef de cuisine Antonio Buono (giovane napoletano selezionato per rappresentare la Francia nella competizione San Pellegrino Young Chef 2018). Un pasto veloce prima di iniziare il servizio, dalle 12 alle 15, poi qualche ora dedicata alle questioni amministrative e di nuovo il briefing per la sera, la cena con tutta la brigata e infine servizio, che termina verso l’una di notte.”
Progetti per il futuro?
“Visioni, più che progetti. In questo momento stiamo studiando l’ampliamento dell’orto già esistente e soprattutto un modo per integrarlo nell’esperienza Mirazur, in modo che i clienti possano vederlo e viverlo prima di sedersi a tavola e trovarlo nel piatto. Il ristorante e l’orto sono una cosa sola e questa prospettiva di integrazione mi illumina (confermiamo che, quando Colagreco parla dell’orto, effettivamente, s’illumina). Tra non molto poi dovrebbe uscire il libro del Mirazur, al quale stiamo lavorando da due anni, un libro d’arte più che di cucina, di cui vado molto fiero: racconterà la storia del ristorante, molto particolare per via della sua situazione geografica e architettonica, delle persone che vi lavorano, dei nostri fornitori, ma ci sarà spazio anche per alcune ricette.”