E tra i 45 già attivi ecco quelli che funzionano meglio. Lenticchie di Ustica al top
(Francesco Sottile)
di Clara Minissale
Più fondi per i presidii siciliani di Slow food. Lo chiede l’Associazione impegnata a dare giusto valore al cibo, per portare avanti l’opera di produttori isolani che marciano spediti verso la salvaguardia della biodiversità e la tutela di produzioni di eccellenza che rischiano di scomparire, ma il cui lavoro è messo a rischio dalla mancanza di risorse.
Gli enti pubblici, da sempre punto di riferimento di Slowfood nel sostegno a presidii e produttori, al momento non erogano finanziamenti e le amministrazioni locali hanno spesso difficoltà a sopperire a questa mancanza. Il risultato è che alcuni presidii che sulla carta sarebbero pronti a partire, di fatto rimangono nel limbo, in attesa che si sblocchino le risorse economiche necessarie a garantire il fondamentale sostegno agli agricoltori in fase di partenza di un presidio, la redazione del disciplinare, l’aggregazione tra produttori e i piani di comunicazione.
La Sicilia, dalla fine degli anni '90 in cui nacque il primo blocco di presidii – pistacchio di Bronte e pesca di Leonforte – oggi è arrivata a quota 45 ed è la regione italiana che ne ha di più. Alcuni godono di ottima salute e hanno contribuito al rilancio dell’economia del territorio, altri invece soffrono. Abbiamo fatto una chiacchierata con il referente regionale di Slow Food per i presidi Francesco Sottile, per fare il punto sulla situazione.
Professore Sottile come stanno i presidii siciliani?
“I presidii siciliani stanno bene anche se siamo momentaneamente fermi per mancanza di risorse. Gli enti pubblici non mettono questi progetti tra le priorità e quindi non abbiamo avuto risposte in termini economici. Il sostegno al presidio in fase di partenza è fondamentale perché bisogna fare fronte ad una serie di spese che vanno dalla redazione del disciplinare al piano di comunicazione. Per avviare un presidio servono almeno settemila euro e al momento abbiamo almeno otto presidii in stand by e nessuna proposta ufficiale da nessun ente pubblico. Non possiamo far partire presidii a zero finanziamento perché non riusciremmo a sostenerli come è necessario”.
Chi potrebbe contribuire?
“I finanziamenti devono arrivare preferibilmente da enti pubblici per evitare che qualcuno che magari ha degli interessi personali, possa dire di avere “acquistato un presidio”. Alcuni Comuni, come ad esempio Castrofilippo o Polizzi, hanno sostenuto economicamente i loro prodotti e ci sono anche almeno un paio di casi in cui privati che non hanno alcun interesse nel settore, come ad esempio Ustica Lines o Sicily by car, hanno sostenuto dei presidii. Noi, al momento, stiamo tentando la strada dell’interlocuzione tra produttori e amministrazioni locali“.
(Lenticchie di Ustica)
Qual è il rischio che si corre nel tenere bloccati potenziali presidii?
“Non avendo risorse, il rischio reale è di perdere la biodiversità perché i produttori, anche se credono nella tutela e salvaguardia del territorio, hanno bisogno di motivazioni valide per andare avanti. Con il presidio si innesca un meccanismo virtuoso che fa crescere in numero e qualità le coltivazioni. Da lì poi partono alleanze con i ristoranti, richieste dalle fiere nord Italia e, a volte anche dall’estero, a tutto vantaggio di produttori e territorio”.
Quali sono i presidii più virtuosi?
“Lenticchie e fave di Ustica vanno molto bene anche se le fave sono tra i presidii più recenti, ma possiamo già dire che stanno riscontrando un favore straordinario anche nella forma del macco pronto all’uso che per noi rappresenta l’unione della trazione – la coltivazione delle fave – con l’innovazione – il preparato in barattolo. Il melone purceddu di Alcamo che vendiamo molto bene al nord Italia e anche all’estero; l’aglio rosso di Nubia, molto richiesto da diverse catene della grande distribuzione nazionale; il fagiolo Badda la cui produzione dal 2007 ad oggi è raddoppiata. Poi ci sono i presidii più antichi, quelli più consolidati come il pistacchio di Bronte o la mandorla di Noto. Tra i più nuovi, invece, ha grande forza il sesamo di Ispica che trova impiego anche nell’industria dei trasformati e quest’anno è andato esaurito. Un altro esempio virtuoso è quello dell’albicocca di Scillato, frutto che era quasi scomparso e che oggi si reimpianta con un a netta inversione di tendenza”.
Quali, invece, quelli meno virtuosi?
“Non ci sono presidii meno virtuosi ma solo, a volte qualcuno che incontra maggiori difficoltà”.
Quali sono?
“Perlopiù difficoltà di comunicazione tra i produttori alle quali noi cerchiamo di fare fronte proponendo occasioni di aggregazione, aggiornamenti, verifiche. In alcuni casi abbiamo difficoltà a trovare nuovi produttori che vogliano aggregarsi – come ad esempio nel caso del cavolo trunzu di Aci – ma questo è dovuto al fatto che siamo molto rigorosi coi disciplinari di produzione”.
Un produttore può vivere di presidio?
“Di presidio non si vive ma è importante impegnarsi per conservare la biodiversità che è il punto di partenza per un meccanismo di produzione diverso. Slow Food ha da sempre un approccio contrario alla monocoltura, invogliando alla diversificazione. Vi faccio un esempio. I ragazzi che si occupano dell’albicocca di Scillato sono partiti dall’albicocca, appunto, ma oggi hanno anche arance, fanno prodotti trasformati, hanno creato un orto che coinvolge anche gli abitanti della zona. Il presidio per loro, come per molti altri produttori, è stata la scintilla che ha fatto partire un processo virtuoso per attività di tipo agricolo e funziona come deve funzionare, non come strumento di reddito ma di biodiversità. Dunque chi dice che un presidio non serve, lo fa solo perché non ha ben chiaro di cosa si tratta”.