di Gianni Paternò
Esiste ancora in vari angoli d’Italia una viticoltura che possiamo definire eroica, difficile o ancestrale, in qualche caso perfino al limite della sana follia.
Così è quella che pratica Paola Lantieri nell’arcipelago delle Lipari, ma non a Salina o a Lipari come ci si aspetterebbe, bensì a Vulcano dove l’agricoltura si effettua principalmente nelle zone che i turisti nemmeno immaginano che esistono e dove di vigneti in tutto ce ne sono solamente 12 ettari. Paola, medico, palermitana di una famiglia che possedeva supermercati, con i suoi cari cominciò a frequentare Vulcano dall’inizio degli anni '70, ancora adolescente, quando comprarono una casetta dove trascorrere la villeggiatura. Allora nell’isola si praticava principalmente l’agricoltura e cominciava a svilupparsi il turismo che comunque è rimasto stagionale e Paola sempre più si innamorava di questo territorio nero vulcanico dove la salinità delle brezze inonda i polmoni. Nel 1995 acquista un rudere in contrada Gelso-Punta dell’Ufala nel versante a sud del monte, quello che guarda la Sicilia, che comprende 7,5 ettari di terreno in parte non utilizzabile.
Non c’è rete idrica e fognante, solamente l’elettricità, ristruttura la casa e pensa di realizzare un suo sogno: fare vino ma come si faceva una volta. Nel 2002 scassa 4,5 ettari di terreno vulcanico e l’anno seguente impianta l’autoctono tipico: la Malvasia e un minimo di Corinto Nero.
(Un grappolo di Malvasia)
Qualcuno vorrebbe convincerla a mettere gli alberelli, ma lei determinata, considerando che la Malvasia sviluppa tralci lunghi, fa spalliere potate a Guyot e inizia a coltivare nella maniera più semplice: solo zolfo e rame (e per giunta pochi), stallatico, sovescio e da qualche anno secondo i principi del biodinamico, quindi seguendo le fasi lunari, usando la dinamizzazione e le varie tecniche naturali, ma non certifica niente, sarebbe troppo caro per la sua piccola attività e aumenterebbe ancor di più le carte da produrre.
Inizialmente decide di fare solo il Passito, quindi si fa realizzare i “cannizzi” dove appassire i grappoli e non bastando la difficoltà di trovare mano d’opera, è costretta a portare le uve e vinificare a Salina con ulteriore aggravio dei costi. Nonostante il suo Passito sia molto apprezzato e ben considerato nelle ultime 2 annate decide di vinificare tutto in Malvasia secca, che riscuote grande successo. In totale sono 7 mila bottiglie tra il secco e il passito, e non è un refuso, le rese in uva sono bassissime: circa 25 quintali per ettaro. Con l’appassimento il risultato in vino è ancora minore. Veramente ci vuole tutta la sua passione e la sua cocciutaggine per portare avanti un lavoro duro con cui riesce solamente a recuperare le spese.
(Paola, la figlia Daria e i cannizzi)
Recensiamo il Passito che viene raccolto precocemente in genere a metà agosto quando l’uva ha ancora una buona acidità, più profumi e meno zuccheri. Veramente se ne raccoglie la metà che è posta al sole sui cannizzi, l’altra rimane ad appassire in pianta strozzandone con maestria il tralcio. L’appassimento nelle migliori condizioni dura 7 giorni se non più. A questo punto si raccoglie l’altra metà, si seleziona acino per acino e caricate le cassette sul camion si traghetta a Salina dove avviene la vinificazione classica: diraspatura, pigiatura soffice, brevissima macerazione e non facendo diminuire la temperatura eccessivamente, fermenta spontaneamente; si allontanano le fecce grossolane e nel feccino fine si fa maturare fino a marzo-aprile, sempre in acciaio, quando senza chiarifica si imbottiglia, per rimanervi quanto più a lungo possibile, cioè fino alla vendita. Paola, che ha come consulente enologo Vincenzo Angileri, contro la sua volontà è costretta a filtrare, anche se leggermente, per ottemperare alle norme obsolete del disciplinare. E’ costretta ad utilizzare i solfiti perchè altrimenti gli zuccheri ancora contenuti nel vino potrebbero rifermentare, ma ne usa il minimo indispensabile, non superando i totali 80 milligrammi per litro, pochissimo per un vino dolce.
Nel calice il colore è dorato tendente all’ambra. Olfatto: dimenticatevi gli altri passiti. Siamo in presenza di note più da fiori e biscotti secchi che mielate, nocciole e mandorle tostate, la frutta candita è delicata mentre sprigiona qualcosa che ti fa capire che viene da terreni vulcanici e iodio: è elegante, personale, diverso. Questa sua distinguente personalità si avverte anche in bocca, è appena dolce, di grande e complessa struttura, intenso ma non eccessivamente viscoso, con una buona acidità ed una mineralità fatta di sale e di iodio che la fanno sembrare meno alcolica. Una Malvasia Passito che non smetteresti di bere tanto è equilibrata e fine. Persistenza molto lunga che addirittura tende al secco, lasciando il palato asciutto.
Si abbina a pasticceria non molto dolce e specialmente a formaggi ben stagionati e anche erborinati, ma se l’apprezzate a solo non sbagliate. Sono 6.000 bottiglie che allo scaffale, quei pochi dove potreste trovarla, si vendono a 28 euro, ma potete rivolgervi direttamente alla produttrice. In ogni caso vi consiglio di comprarne almeno 2, una la gustate subito, l’altra la metterete in bella evidenza nella vostra collezione.
Rubrica a cura di Salvo Giusino
Lantieri – Punta dell’Ufala Az. Agr.
Contrada Gelso, Vulcano
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