Anche quest'anno Cronache di Gusto non pubblicherà valutazioni sulla vendemmia in corso. E il fondatore di Slow Food aggiunge: “Evitiamo anche le gare a chi produce più vino. La forza dell'Italia è la biodiversità non la quantità”.
Ci risiamo. Da qualche parte si comincia a raccogliere uva e cominciano a volare gli aggettivi: eccellente, clima fantastico, ottima annata e via dicendo.
L'anno scorso, davanti a un'estate probabilmente forse più calda e all'impazzare di comunicati stampa che spargevano lodi sulla vendemmia appena cominciata abbiamo detto alt (leggi qui) alla pubblicazioni di articoli sul tema. Ci siamo tirati fuori grazie anche alla presa di posizione della Fivi, la Fedeazione dei Vignaioli Italiani il cui presidente Matilde Poggi aveva deciso di prendere le distanze da questa comunicazione roboante e spesso inopportuna. Anche quest'anno Cronache di Gusto non parteciperà al coro autoreferenziale che rende poco credibile il mondo del vino. Mentre registriamo che al gruppo dei legittimi dubbiosi si iscrive anche Carlin Petrini, il fondatore e carismatico leader di Slow Food.
Sentite cosa ha scritto Petrini pochi giorni fa sulla Stampa di Torino: “Si avvicina agosto e con esso il momento in cui partirà, da parte dei miei amici critici enologici e non solo, la corsa ad affermare quanto questa sia un’annata eccezionale dal punto di vista vinicolo…I conti si fanno a bocce ferme. È evidente pertanto che, prima di lanciarsi in annunci e previsioni roboanti, la vendemmia va portata a casa. Non solo dal punto di vista del raccolto, che ovviamente dipende da condizioni climatiche quanto mai mutevoli e imprevedibili fino all’ultimo, ma anche da quello di un affinamento in cantina che non è uguale di anno in anno e che, fino alla prova concreta del tempo, non può essere valutato”. Più chiaro di così non si può. Petrini critica giustamente anche la gara – anche questa ormai annuale – “nello stimare la produzione complessiva, la quota di mercato che la nostra viticoltura riesce a conquistare a livello internazionale, il prestigio che le nostre etichette riscuotono nel mondo. È indubbio – scrive il fondatore di Slow Food – che questo abbia importanza dal punto di vista della salute complessiva del comparto, ma non dobbiamo fare l’errore di pensare che una maggior produzione sia per forza di cose un dato positivo o che lo strapotere di vini come il Barolo e il Barbaresco, il Brunello di Montalcino fino ad arrivare al Prosecco per parlare di grandi numeri, vada salutato come segno del successo tricolore. Non va dimenticato, infatti, che l’Italia gode della più grande varietà di vitigni autoctoni imbottigliati del mondo, con più di 700 varietà che compongono il nostro panorama vinicolo e che ciascuna di queste ha particolarità e peculiarità che non solo le rendono uniche, ma che dovrebbero farne l’orgoglio vero della nostra agricoltura. Penso che su questo bisognerebbe puntare, più che sulla potenza internazionale dei vini più conosciuti. Anche perché la diversità è quella che ha fatto la storia della nostra enologia, è nella diversità che si esprime il territorio, e puntare tutto sul fascino dei grandi vini è una scelta un po’ miope così come è miope la scelta di osannare un aumento della produzione che, a conti fatti, vede, a fronte di un superamento della Francia in termini di numero di bottiglie prodotte, un’entrata nelle casse dei nostri produttori di poco più della metà rispetto agli omologhi d’oltralpe”. Per Petrini “la battaglia si gioca tutto sulla valorizzazione della varietà e della complessità del nostro panorama vinicolo, sapendo che un vitigno autoctono è quello che meglio ha adattato le proprie caratteristiche al territorio che lo ospita, e che nei secoli ha instaurato una relazione con l’uomo che a sua volta si è adattato alla sua coltivazione, ha messo a punto tecniche che a loro volta hanno plasmato il paesaggio e la socialità”.
C.d.G.