(Valentina Argiolas)
La Sardegna del vino è nel limbo. E ora, che fare? Scendere all’inferno o salire in Paradiso?
Ne parliamo con Valentina Argiolas, rappresentante della terza generazione della famiglia sarda che dal 1906, vendemmia dopo vendemmia, tramanda la tradizione vinicola della Sardegna nel mondo: una delle poche aziende del vino, capace di portare alto il nome di quest’isola un po’ assonnata. E senza aiuto né supporto da parte delle istituzioni regionali.
Ascoltando Valentina, portavoce delle aziende che vivono lo stesso presente, sospese tra un passato che ha stancato e un futuro tutto da costruire, la Sardegna è sola nella scalata verso il suo avvenire, nel panorama vinicolo italiano; impantanata nel torpore dell’anonimato, che non le fa spiccare il volo, se non tramite l’effetto traino dei pochi grandi nomi del vino, che nel resto del mondo ottengono riconoscimenti, ma da solisti. Insomma, “non si fa sistema – lamenta la giovane produttrice – non si collabora”. Ed è giunto il momento di cambiare rotta. Forse traendo spunti dalla Sicilia. Terra che, “grazie all’associazione Assovini è riuscita a fare il salto di qualità”, dice Valentina. Così si esprime, parlandoci con sincerità e con tanta voglia di cambiare lo stato dell’arte per trasformare la sua isola in un brand da diffondere in giro per il mondo.
La Sardegna del vino. Quale realtà vive?
“Si trova nel limbo, perché è come se non avesse deciso cosa fare, se scendere all’inferno o salire in Paradiso. Manca la massa critica sia qualitativa che quantitativa. Paragono la nostra situazione alla Sicilia, sia perché siamo due isole, sia perché siamo stati dominati per secoli da altre popolazioni, sia perché il vino è un elemento fondamentale dell’agricoltura. Però, rispetto alla mia terra, la Sicilia nel ’95 ha svoltato e lo ha fatto grazie alle giovani generazioni di produttori, che hanno messo da parte individualismi e diffidenze, capendo che l’obiettivo si poteva raggiungere solo insieme”.
Cosa fare allora per cambiare rotta?
“In Sardegna, quanto di positivo è accaduto in Sicilia sta accadendo adesso, perché le grandi aziende del territorio hanno capito, con le nuove generazioni, che bisogna darsi da fare. O ci uniamo oppure rimarremo sempre soli a rappresentare un’isola non molto visibile a livello istituzionale. Se la Regione non fa niente, gli unici che possiamo fare qualcosa siamo noi. Abbiamo pressato per tanti anni. Sono cambiati i governi, ma non è mai cambiato nulla. Ora vogliamo fare noi. Unirci inizialmente in pochi per poi allargare anche ad altre realtà. Non c’è tempo da perdere. I Consorzi non funzionano, le Strade del vino non funzionano, le camere di commercio non funzionano, le cooperative non funzionano. Perché anche se fanno bene, ciascuno lavora per conto proprio. Non c’è aggregazione tra privati, insomma. Tante piccole voci, troppo deboli per riuscire ad acquisire forza nel mercato e nel mondo”.
Nessun supporto istituzionale?
Abbiamo provato a coinvolgere le Istituzioni ma ci siamo arresi. Bussiamo alle porte da anni, invano. La nostra azienda viene citata come una cantina di forza, ma cosa ha fatto la Regione Sardegna per contribuire a farla diventare tale? Non ci può citare come esempio per poi non far nulla per darci una mano. E non chiediamo certo un sostegno individuale. Ciò che vogliamo è che la Regione inizi a promuovere veramente l’Isola. Poi ogni produttore camminerà sulle proprie gambe. E questo è l’obiettivo che ci poniamo”.
Cosa fare allora da privati? Quali potrebbero essere le strategie da perseguire?
“Seguiamo molto l’esempio di Assovini in Sicilia in questi anni: un’associazione tra produttori di piccole, medie e grandi dimensioni, capaci e decisi ad affrontare le tante sfide del settore vitivinicolo sia nell’ambito più strettamente istituzionale che sui fronti della produzione, del mercato, della comunicazione. Quello che manca alla Sardegna è far conoscere l’isola attraverso incoming, degustazioni, eventi”.
E come contate di organizzarvi, senza l’aiuto delle Istituzioni regionali? Non ci sono anche lacune logistiche che impediscono o intralciano i vostri obiettivi?
“Assolutamente sì. I trasposti, la logistica. Tante le cose che non funzionano. Ma è giunto il momento di concentrare le forze private. Contiamo di fare qualcosa, di far vedere che sappiamo fare qualcosa. Siamo in grado di far parlare della Sardegna. E siamo disposti a sostenere privatamente i costi di incoming ed eventi, per iniziare ad orientare il pensiero istituzionale verso attività che possono essere guidate da noi produttori associati. Un po’ come si è fatto in Sicilia. Semplicemente questo”.
Quando potremo percepire il cambiamento della Sardegna?
“Bella domanda. Difficile fare pronostici. Diciamo che oggi poche grandi aziende vinicole sarde, compresa Argiolas, si sono fidanzate. A rappresentarle, ci sono le nuove generazioni di famiglia. Sono quattro aziende e una quinta rappresentata da una generazione più matura, ma con una mentalità giovane e innovativa. Ci stiamo conoscendo piano piano. Facciamo una riunione ogni mese e mezzo. Litighiamo, ci confrontiamo. È una fase da corteggiamento. Ma speriamo di sposarci. Penso che questo sia l’unico modo per far conoscere il brand Sardegna nel mondo. Non possiamo più aspettare che lo facciano gli altri. Per noi, Argiolas, o per altri, non è una forza essere gli unici o i pochi a rappresentare la Sardegna”.
Riscontrate oggi difficoltà nella vendita dei vini all’estero?
“Assolutamente. Percepiamo di essere riconoscibili noi stessi, come Argiolas, prima di tutto. Solo in seguito siamo Sardegna. Non emerge, in primo luogo, l’immagine dell’isola. Noi siamo un brand aziendale che fa da traino, che rappresenta l’isola. Ciò è assurdo. In pratica, è il contrario di quello che dovrebbe accadere in un territorio così importante. E questo non ci dà la giusta forza che meritiamo all’estero. La Sardegna è un’isola che non si conosce. Come può un consumatore sceglierla?”
Francesca Landolina