La produttrice di Faenza concorda con l'appello lanciato dalla MW a Taormina Gourmet su questo sistema di allevamento e invita i produttori d'Italia ad un unirsi in un “Club dell'alberello”
Lo scorso ottobre Jancis Robinson, guest star a Taormina Gourmet, l'evento a firma di Cronache di Gusto, lanciava il monito sulla valorizzazione dell'alberello come il sistema garante della tipicità del vino e dell'integrità del territorio, punto di forza per le sfide future nei mercati che, come ci ha confermato, chiederanno la riconoscibilità nel calice del luogo di origine (per leggere l'articolo cliccare qui).
La master of wine, tra le guru del vino più autorevoli al mondo, durante la conduzione del tasting dedicato ad alcuni vini delle regioni meridionali, ha esposto questa sua tesi, o meglio, previsione, e ammetteva alla platea quanto fosse rimasta affascinata da questo allevamento osservato sull'Etna. Parole inaspettate e a sostegno della missione portata avanti da una piccola rappresentanza del mondo del vino.
Sull’appello della Robinson rivolta ai produttori, abbiamo voluto interpellare una produttrice che ha fatto dell'alberello non solo una ragione di vita e professionale, ma un atto che ha soprattutto del rivoluzionario e dell'anacronistico se pensiamo al luogo e ai tempi in cui decide di rimboccarsi le maniche in vigna e in cantina. Maria Cristina Geminiani, di Fattoria Zerbina, a Marzeno, nell'areale di Faenza, nome noto dello scenario enologico romagnolo, questa arte viticola l'ha sposata nel 1989 in un territorio in cui si era estinta da tempo con l'avvento del conferimento alle cantine sociali, quando la produzione cominciava a votarsi a quella di massa. Nell’area circostante, dove degrada l’Appennino faentino, o nelle colline forlivesi, tracce sul Sangiovese ad alberello portano ad una datazione intorno al 1400, fu introdotto dai popoli che provenivano dal bacino del Mediterraneo, dal mare, diffuso con l’impero romano. Per Cristina è stato un ritorno al passato, alla tradizione cercato e voluto, dopo un percorso di studi in agronomia ed enologia a Bordeaux, una strada illuminata dalla consulenza dell’agronomo Remigio Bordini. La condizione sine qua non per qualificare le sue uve rosse, principalmente il Sangiovese. Scelta, tra l'altro, apprezzata dalla stessa Robinson che la cita nella sezione dedicata al vitigno Sangiovese nel The World Atlas of Wine, anche in un articolo sul Financial Times decantando la beva del Ravenna Rosso Marzieno, e dal suo braccio destro Walter Speller.
La produttrice, non può che dimostrarsi concorde su quanto espresso dalla MW. Oggi Cristina coltiva ad alberello 20 dei 29 ettari vitati nella sua tenuta, da cui riesce ad ottenere 200 mila bottiglie. E’ la sola nella regione a coltivare in questo modo, e in maniera così intensiva, con un sesto di 8mila piante per ettaro. Ci illustra i vantaggi in termini di una qualità delle uve che rispecchia in tutto e per tutto il territorio. Lo fa con cognizione di causa e con confronti alla mano, dato che coltiva a cordone speronato l’Albana, non adatto ad essere allevato ad alberello, poiché molto produttivo.
“La viticoltura ad alberello parla del territorio, di noi – ci dice –. Il vino viene diverso, con una maggiore ricchezza, ho potuto appurare, con una frutta più evidente, con un maggiore equilibrio. Perché l’alberello è un sistema perfetto, che si auto regola, che funziona con un suo equilibrio, appunto. Bisogna assecondarlo e rispettarlo. La natura in questo caso comanda, è il vitigno a dettare le regole, si autodefinisce nella produzione e impone una selezione”. Afferma però che non tutti i porta innesti, non tutti i cloni si possono allevare ad alberello essendo questo un sistema compatto. Per i varietali vigorosi sarebbe come “mettere in una 500 un motore della Ferrari”. Sebbene poi sia più costoso per la gestione dell’impianto ha un ritorno altissimo nella qualità dell’uva. “La buccia è più spessa, consistente, l’espressione del frutto è evidente, dà una maggiore tannicità. Poi tutti pensano che essendo non distante dal terreno sia soggetto al marciume nelle stagioni avverse, invece non è così, per come è costituito riesce a recepire meglio la luce e il vento. Risponde bene alle annate difficili ed è resistente ai cambiamenti climatici. Che dire, l’alberello ha una marcia in più”.
E per la Geminiani è simbolo di una viticoltura eroica, di pregio. “Ma vorrei che questa eroicità fosse condivisa con altri produttori per fare resuscitare questo allevamento anche in altre regioni minori, quelle meno blasonate, dove si vuole fare bene e vino di territorio. “Come ho fatto io in Romagna – esorta – nell’immaginario collettivo associata alla viticoltura di massa”. E lancia un’idea che sa anche di appello. “Facciamo un club dell’alberello!”. Inteso trasversale a tutto il Paese. Con l’adozione dell’alberello potrebbe innescarsi una rivoluzione, sana, secondo la produttrice. “Ho potuto abbattere determinati preconcetti, come quello che la Romagna è terra dell’impossibile, incapace di dare grandi vini, invece l’impossibile oggi è una certezza realizzata, certo mi ci sono voluti trent’anni ma ce l’ho fatta!”.
Manuela Laiacona