Riccardo Cotarella
“I vitigni e i terroir del futuro? Il Nerello mascalese e quindi l’’Etna. E il Gaglioppo con le sue molteplici aree della Calabria”.
“Ma da scoprire ce ne saranno molti ancora. E l’Italia ne è piena. La consacrazione del Nerello e del Gaglioppo è già conclamata e io li pongo all’apice di una mia virtuale piramide. Al secondo livello vedo il Sangiovese, ma solo quello toscano e delle aree a questa regione adiacenti. Poi, in ordine discendente, il Nebbiolo del Piemonte e a ruota, i vitigni adriatici con in testa il Montepulciano. Ne seguono, alla base, tanti altri ma la lista si farebbe lunga e noiosa. Chiarisco: questi citati, non sono dei campioni, né delle promesse, semplicemente sono vitigni dalle uve tardive dotati di caratteristiche capaci di adattarsi meglio degli altri ai cambiamenti climatici in atto. Cambiamenti la cui dinamica evoluzione verso l’altoe, per di più, non ancora stabilizzata, impone l’esigenza di gestire le nuove vendemmie con un diverso approccio e nuovi protocolli se si vorrà ottenere che questo handicap si tramuti in un remunerativo benefit. E le condizioni ci sono. La mano dell’uomo, dunque, sarà sempre più determinante e insostituibile”.
Lo sentenzia Riccardo Cotarella, uno dei winemaker più celebrati d’Italia, con un “medagliere” imbottito di prestigiosi riconoscimenti, e una spiccata vocazione per i territori non…vocati. Che non prova imbarazzo a confermare: “I miei “in…successi” professionali? Sono tutti legati alle zone vocate o, meglio dire, “ritenute” vocate” come, con ardito coraggio, osò affermare un tempo: “…l’ Italia tutta, salvo alcune aree di montagna, e una piccola porzione della pianura padana, è un unicum di straordinarie terre da vino: dalle aree costiere alle zone interne, ognuna con le proprie uve autoctone o internazionali. Un patrimonio ineguagliabile invidiatoci da tutto il mondo”.
Tante e tali aree di cui Cotarella, potrebbe fornire, a sostegno di questa tesi, un personale esempio, ma la sua modestia lo elude e lo facciamo noi per lui. Citando solo tre dei suoi piccoli, o grandi, tra i tanti gioielli o capolavori, che ha firmato e ne hanno fatto i capitoli tra i più corposi della storia dell’enologia moderna: il “Montevetrano”, di Silvia Imparato, un blend di Cabernet, Merlot e Aglianico definito dalla critica “il Sassicaia dei pendii a sud di Napoli” « il vino che ha acceso la mia luce professionale e la luce della Campania. Prima di questo vino c’era il buio», e Robert Parker lo definì “uno dei più grandi vini rossi mai assaggiati nella mia vita”; il “Terre di Lavoro” di Galardi, entrambi nati in zone estranee alle tradizionali e storiche aree della Campania Felix. E a completare la terzina, il suo “Montiano”, un prestigioso Merlot dell’azienda di famiglia la “Falesco”, vino nato e cresciuto, come gli altri, in un territorio umbro definito “non vocato”.
Dunque “terroir” come baricentro della sua “enofilosofia” “…e vi spiego il perché – continua Cotarella. Il terroir è l’elemento essenziale capace di manifestare le caratteristiche del vino, e ancor più dell’uva. L’uva è semplicemente un mezzo affinché il territorio si manifesti e caratterizzi il vino e renda individuabili le peculiarità di un territorio. Che quest’uva appartenga ad un autoctono o un internazionale poco importa. Importante sarà cogliere il fine di evocare un paesaggio una zona ben definita. Se il vino si ricorderà per la sola uva, e non per il territorio che esprime, sarà un vino senza personalità. Perché tutti potranno fare un Merlot o un Sangiovese, anche in Sudafrica. Ma nessuno può riprodurre le caratteristiche pedoclimatiche delle colline toscane. Che il territorio sia fondamentale lo hanno spiegato bene i nostri amici francesi. Avete mai visto l’etichetta di una loro bottiglia con su riportato il nome del vitigno? C’è solo il territorio: il Médoc, il Pomerol, o ancora Côte d'Or, Gevrey-Chambertin. Mai Cabernet, Merlot, Pinot o Chardonnay e neanche Bordeaux o Borgogna, ma solo i piccoli territori d’origine che si distinguono separatamente anche con la stessa uva”.
Insomma il terroir per Cotarella non è solo l’olio, il sale e il pepe del terreno, come la bella metafora che usa Parker per spiegare come i territori influenzino il gusto del vino, ma lo stesso humus della sua anima. Infatti abbiamo fatto un’immane fatica a distoglierlo da questi temi per farci raccontare, i suoi vini del cuore, le esperienze gomito a gomito coi colleghi francesi dei prestigiosi Chateau, l’esercizio di vivere cinquanta vendemmie all’anno, tante sono le sue consulenze. E poi la sua enologia mistica di San Patrignano e il suo rapporto siciliano compreso in quei mondi a parte che sono l’Etna e il suo cratere. E ancora l’enologia indiana e quella israeliana con la cantina dei Salesiani a Cremisan in Palestina, in mezzo a due fuochi, tra Gerusalemme e Betlemme. Storie di vini e dell’enologo che li ha pensati. Che a giorni racconteremo. In una forma così definibile, “Cotarella, quasi un ritratto”. Come il titolo di un libro che il collega napoletano, Nino D’Antonio, gli ha dedicato.
Stefano Gurrera