Bruno Alvisini, Emilio Ridolfi, Michele Faro, Mario Paoluzi
Il terzo millennio ha portato nel mondo del vino ventate di novità, le più eterogenee e complesse mai registrate.
Dalla crisi però è nata una salutare consapevolezza: quella che il vino italiano gode del più ricco patrimonio di cui si possa disporre sulla terra. Consapevolezza di disporre di prodotti vincenti, di identità tipiche, di carenze fattesi forza: il nanismo delle imprese, ad esempio, e le sue frammentazioni risultano oggi armi vincenti. Perché offrono flessibilità e competitività da declinare non solo sui mercati esteri ma anche nei canali domestici. Sono considerazioni che nascono ascoltando le voci di quattro “addetti” del vino siciliano che questa crisi l’hanno vissuta e sentita sulla pelle: Bruno Alvisini, direttore generale di Fazio Wine, Emilio Ridolfi, direttore commerciale Italia di Cantine Pellegrino. Hanno dato la loro testimonianza anche tre piccoli produttori dell’Etna: Miche Faro di Archineri e Mario Paoluzi de I Custodi delle Vigne dell’Etna, quest’ultimi due con progetti di grande sviluppo il primo sul piano delle eccellenze i secondi mirando ad un ambizioso aumento di volumi ma consolidando ancor più l’alta qualità.
“Vedute larghe, pensieri profondi, cospicui investimenti – esordisce Bruno Alvisini – e noi puntiamo ad espanderci nei mercati orientali. Abbiamo messo a punto un lavoro capillare mirato a far breccia nel cuore dei cinesi. Tra i nuovi cento milioni di ricchi, molti il vino cominciano a conoscerlo. Noi vogliamo farli innamorare. Andiamo a raccontare la storia della nostra Sicilia, le degustazioni saranno un gioco che subito dovrà diventare un piacere e poi una passione. Ma dobbiamo lavorare e pensare con ideogrammi cinesi se vogliamo centrare il primo obiettivo: accrescere l’appeal del marchio Fazio. Seconda voce del nostro business plane: mantenere e consolidare i risultati del 2011/2012, un biennio da incorniciare con un raddoppio di produzione e fatturato tali da farci vivere di rendita. L’arma vincente? La grande distribuzione e la rete promozionale che l’ha gestita. Rispettando le regole e assorbendo le loro logiche. Un’azzeccata gamma di posizionamento dei prezzi ci ha fatto registrare una crescita a due cifre”.
“Dobbiamo curare bene anche il mercato regionale e qui abbiamo scoperto un crescente e significativo “amore” per i vini della propria terra, gli autoctoni”. E’ la sorpresa che ha stupito, ma non tanto, Emilio Ridolfi. “Abbiamo venduto tutto, il Gibelè, oltre centomila bottiglie, e in gran parte in Sicilia – precisa il direttore – ed è un dato con tre aspetti positivi: era quanto ci eravamo fissati nel 2006, in maggior numero preferito dai siciliani come già detto, e ci conferma l’intuizione che i gusti dei consumatori già da alcuni anni stava virando verso gli autoctoni. Una conferma che viene anche dagli apprezzamenti riscossi dal Dianthà il nuovo vino leggermente mosso e poco alcolico, una sorta di un Tremari vestito a festa la cui gradevolezza spiega bene il cambiamento di un gusto sempre più orientato su vini gradevoli e beverini. Soddisfazioni che consolano in parte un anno da dimenticare. Dopo tredici anni di chiusure attive il bilancio segna un complessivo meno quattro che a ben guardare più che un flop possiamo considerarlo un rassicurante consolidamento. Perché è stato determinato dalla sola voce vini dolci ed è facile leggere che il vino della feste è stato snobbato in un anno di crisi in cui c’è stato poco da festeggiare”.
Un mondo tutto diverso per l’enologia etnea: qui pare che abbiano preso coscienza della propria identità, anche se fanno fatica a comunicare questo vincente cambiamento. Eppure dovrebbe risultare facile per chi ha in mano un prodotto “inimitabile”. Un pianeta di piccole realtà quello etneo, in cui molti però, sono ancora convinti che l’unione non fa la forza ma solo confusione, che le cose nuove vanno guardate con lo sguardo antico della tradizione mentre tutti gli imprenditori del tempo presente osservano le antiche tradizioni con uno sguardo moderno. Con qualche piccola eccezione. Michele Faro ha puntato dritto alla qualità e su questa strada vuol continuare. La sua strategia? Guadagnarsi consensi, far lievitare la domanda, mantenere bassa la sua offerta. Risultato: un’ ottima e significativa remunerazione. Come l’esempio del Vigna Barbagallo ha dimostrato. Grande celebrazione dalle riviste internazionali e tutta la piccola produzione della prossima vendemmia già interamente venduta in prenotazione. “Certo, s’impone la necessità di aumentare la produzione. Usciremo con un secondo vino che definire “base” non mi piace lavoreremo sul collaudato Vino dell’Etna, il Pietradolce, non trascureremo neanche gli scomodi mercati del lontano oriente e di certo non ci faremo trovare impreparati se il mercato del vino etneo decollerà, come le premesse, nonostante le ataviche carenze, stanno indicando”.
Pronta ad affrontare il futuro anche l’azienda I Custodi delle vigne dell'Etna, (facente parte della piccola cooperativa dei I Vigneri che racchiude sette soci sparsi fra l’Etna Caltagirone e le Lipari) del “romano dell’Etna” Mario Paoluzi le cui idee sono chiare e determinate. Trenta ettari e 70mila bottiglie, ma l’obiettivo mira ad arrivare a 200mila in tre/quattro anni. “Manterremo lo stesso regime sul rapporto area-resa che non supererà mai il chilogrammo per pianta a prevalenza ad alberello che ci garantisce tipicità ed alta qualità per un vino del territorio che sia espressione di un prodotto anche “umano”, etico e soprattutto di moralità. Le tre virtù che sacralizzano in modo inconfutabile l’unicità di un territorio. E l’Etna è davvero inimitabile”.
Stefano Gurrera