“Gusto, Intelligenza del palato” è il saggio scritto da Rosalia Cavalieri, docente di filosofia del linguaggio all’Università di Messina, edito da Laterza.
Nasce con l’obiettivo di sfatare uno dei luoghi comuni che relega il gusto in una posizione secondaria nella gerarchia dei sensi. Troppo spesso associato alla carnalità, al piacere e alla sensualità sarebbe invece, come ribadisce l’autrice nel corso delle pagine, il senso cognitivo per eccellenza. Se non se ne parla mai nei tanti format sul cibo e mai viene raccontato dai guru della cucina, sul gusto ci rivela qualcosa l’autrice stessa.
“Troviamo dappertutto una letteratura ricchissima che ogni giorno propone libri sulla tavola, sulla cucina, ma sul gusto, come senso deputato al riconoscimento dei cibi e delle bevande, c’è ben poco. Non è un tema trattato e non vine approfondito dal punto di vista cognitivo, intellettuale e culturale. Fino ad ora si è fatta fatica a considerarlo un senso intelligente, finendo per essere snobbato e svalutato”.
Solo negli ultimi anni si starebbe scoprendo la sua rilevanza. “Dobbiamo la poca considerazione di questo senso al pensiero dei filosofi. Nel passato sono loro che in larga parte lo hanno denigrato. Pensiamo a Platone che negava il valore gnoseologico della culinaria e diceva che il filosofo doveva disprezzare i piaceri dati da questo senso. Per non parlare di Immanuel Kant che considerava il gusto non degno di una teoria critica. Non ha nemmeno occupato un posto di privilegio nella ricerca scientifica. Solo negli ultimi quarant’anni la Scienza l’ha riscoperto. Questo ha contribuito a non far diffondere un’educazione del gusto nelle scuole. A parte qualche progetto sporadico o portato avanti da associazioni come Slow Food, sulla conoscenza del cibo non vi è un’adeguata formazione”.
Il gusto è un atto sapiente, secondo quanto ribadisce la Cavalieri, complesso, multisensoriale, linguistico. “E’ il più linguistico dei sensi, insieme all’udito ma per ragioni diverse. Prerogativa degli umani è essere apunto linguistici. Quando mangiamo siamo portati a commentare, a parlare di quello che c’è sul piatto, di come è fatto, questo succede in tutti i contesti. Mangiamo in situazioni conviviali al contrario degli animali, per loro è un’esperienza intima, noi invece amiamo parlare del cibo e questo ci fa apprezzare meglio l’alimento e accedere fino in fondo all’esperienza gustativa. Ne abbiamo prova tangibile negli ultimi tempi, per esempio, con la diffusione della lingua del vino, che a tutti gli effetti è una microlingua. Settoriale ma ritagliata all’interno della lingua quotidiana. Apparentemente può apparire esoterica immaginifica. Invece utilizza termini comuni, arricchiti di nuove accezioni e significati metaforici”.
Anche l’eccesso di cibo nei Paesi ricchi, paradossalmente, sarebbe una delle cause della diseducazione al gusto. “Un eccesso di scelta ci ha portati a prestare poca attenzione, aggiungiamo a questo lo stile di vita che conduciamo, la fretta. Le etichette non le guarda nessuno, molte volte la gente compra il salume imbustato piuttosto che quello fresco ignorando che nei confezionati vi è una quantità doppia di additivi”.
Per contrastare le cattive abitudini nel mangiare basterebbe educare sin dallo stato di gravidanza, come ribadisce la docente: “Il gusto si forma in epoca prenatale, segno della precocità di questo senso, talmente plastico da essere plasmato nel grembo materno. Il modo in cui si nutre la madre può condizionare, come tutti sappiamo, i gusti del nascituro. Si dovrebbe partire da lì per un recupero della coscienza del gusto”.
M.L.