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L'intervista

Bonivento (Meteri): “Bret e volatili sono un ricordo. Il vino riscopre tradizione e sicurezza”

03 Aprile 2025
Raffaele Bonivento Raffaele Bonivento

Le rivoluzioni portano con sé la consapevolezza del mutamento. Cambiamenti che, volente o nolente, penetrano nelle abitudini tanto da riconoscere la diversità come necessità. Le rivoluzioni portano con sé anche la necessità di ritrovare, in fin dei conti, un rinnovato desiderio di certezze nell’area comfort del quotidiano. A partire da queste considerazioni, con Raffaele Bonivento Ceo della distribuzione Meteri si è cercato di fare un bilancio nel tentativo di inquadrare in che epoca si possa collocare oggi la vendita del vino, e se la classifica di quelli più venduti in Gdo sia fedele fotografia del “paese reale” nonché tangibile segnale di abitudini e consumi che invitano alla riflessione sui cambiamenti in atto. La settimana scorsa, come di consueto in prossimità del Vinitaly, è stato pubblicato in sintesi uno studio sulla vendita dei vini in Gdo che vede sul podio Prosecco, Chianti e Lambrusco (ricerca Cirnaca, leggi questo articolo>). Tre vini legati a territori e denominazioni note.

Quanto coerenza e convergenza in questi dati nel settore Horeca?
“Trovo coerenza e convergenza a livello di Gdo, e- commerce ed horeca. Almeno da un anno e mezzo circa, c’è una tendenza a rifugiarsi nelle grandi denominazioni. È diminuita la voglia di sperimentare, inclusi gli appassionati che cercano sempre di più icone, riferimenti, sicurezza, anche con capacità di spesa importanti. Quella febbre di sperimentazione che ha coperto un arco temporale dal 2010 circa a dopo il Covid si è affievolita in tanti ambiti. Se nel 2014 dicevo di avere in portfolio, per esempio, un vino ungherese tutti erano pronti ad assaggiarlo, disposti a raccontarlo e lavorarci, oggi invece c’è stanchezza e diffidenza. Magari ci sono vini che piacciono a noi addetti ai lavori, ma di fatto non si vendono. Alla fine siamo un paese consumatore e produttore, ma comunque tradizionalista: come torniamo ai tortellini torniamo ai vini come li abbiamo sentiti sempre chiamare”.

Si sta tornando quindi ai brand e alle grandi denominazioni?
“Sì, c’è un ritorno alla grandi denominazioni, questo vale anche per l’estero. C’è un netto declino, ad esempio, di Savoia e Alsazia, vini buoni a prezzi accessibili a favore della Borgogna, a qualsiasi cifra. Alcuni dei produttori rivoluzionari e anticonformisti di un tempo che si sono imposti sono diventati brand e dunque riferimento”.

Parliamo di Prosecco, bollicina per antonomasia che piaccia o no tiene sempre testa. Da distributore quali considerazioni a livello di consumi in tal senso? 
“In generale il metodo charmat si é sempre venduto bene, anche fuori zona. Che sia nobilitante il metodo classico è più un percepito. A proposito di percepito appunto, anche il Prosecco è percepito come un prodotto di massa, ma produttori virtuosi fanno eccezione. C’è molta confusione fra Doc e Docg. Noi ne stiamo proponendo uno, dosaggio brut, a un prezzo democratico. C’è già interesse, ma è ancora troppo presto per tirare le somme visto che lo presenteremo al Vinitaly”.

Ritorno alla grandi denominazioni sì ma con un po’ di confusione. Si potrebbe dire che vale lo stesso anche per Chianti e Chianti Classico? 
“Sì, stesso discorso. Bevo vino consapevolmente, ma ancora devo dire che c’è molta confusione su questa distinzione. Chianti, in generale, è parola che suona come un’area di confort per il consumatore che vi si rifugia perché magari lo conosce già. Ecco dove abbiamo un consumo di vino più di impronta turistica, specie stranieri, Chianti e Prosecco sono comunque i più venduti. Sono in qualche modo dei marchi capaci di orientare delle scelte”.

Il ritorno alle denominazioni come si declina in sala?
“Il consumatore ha meno voglia di sperimentare magari scottato da esperienze non felici. Come in tutti i momenti di difficoltà si rientra anche qui nel comfort e il rimanere ancorati, o ritornare alle tradizioni, è dovuto al fatto che in sala mancano sempre più figure capaci di proporre qualcosa di complesso che richieda una certa preparazione e argomentazione. Il “vino pop” è finito, o meglio forse rimane davvero una nicchia. Anche per chi ama le cose più estreme e alternative se fra i professionisti gira un Prieure Roch non c’è dubbio su cosa bere. Oggi fra tutti c’è una certa corsa alla sicurezza”.

Anche i professionisti stanno tornando ai grandi classici abbandonando quello stile, chiamiamolo “pop-funky”? 
“Qualcuno ancora sperimenta, ma non c’è più voglia di essere divisivi ed essere in imbarazzo”.

Quindi è la fine di un’epoca? 
“Siamo al neoclassicismo. Se oggi vai dentro un’azienda di vini convenzionali è evidente di come le cose siano cambiate anche lì in termini di attenzione. Se fai un giro nelle colline del Veneto vedrai tanta più vigna inerbita. La rivoluzione è servita per acquisire maggiore consapevolezza, per la produzione di vini più digeribili, sostenibili etc. La rivoluzione, quella intellettuale, è invece finita. Si sta definendo un nuovo canone. Il percorso di un Frank Cornelissen è molto rappresentativo in questa ottica. Anni fa i suoi vini erano divisivi, oggi mettono d’accordo tutti. Il pop non è più pop perché è diventato icona. Qualcuno non lo compra più perché quei vini “non vibrano più””.

In questo nuovo canone cosa c’è dentro?
“Un’attenzione all’ambiente, all’integrità della materia prima. Da parte di tutti c’è una presa di coscienza, sicuramente un orientamento a una beva di qualità, sorso meno autocelebrativi e più scorrevole. Un canone che richiede vini identitari e vini corretti e puliti. Bret e volatili ormai appartengono al passato come tutte le provocazioni. Sono servite ma appartengono al passato, appunto. Il cosmopolitismo del vino ci aveva portato a bere grandi prodotti, bei bianchi e buoni rossi a prezzi del tutto accessibili. Un po’ è l’aspetto che mi dispiace, penso – come detto prima – all’Alsazia per esempio o a dei Riesling di ingresso che seppur non d’annata si rivelano grandissimi vini”.

Questo neoclassicismo porta con sé un nuovo stile di comunicazione?
“Bisogna tenere distinta un’opera d’arte e una bevanda alimento. Non è possibile che tutti i vini siano (stati) fatti da guru etc. Quando facemmo il primo bakari* lo chiamammo “socialmente spensierati”, ovvero beviamo in compagnia senza storie. Quindi il neoclassicismo dovrebbe portare con sé una comunicazione democratica, veloce e accessibile, non solenne. Nulla togliendo ai vini d’autore celebrati dagli adepti ma anche in termini di prezzo la comunicazione deve puntare sull’accessibilità di buoni prodotti. Non deve essere più imbarazzante ordinare una bottiglia di vino buona anche in pizzeria”.

E sulla comunicazione pizza-vino?
“Si deve lavorare di più, non è di certo un tema nuovo. Ma questo mi piacerebbe fare rumore. Ci sto lavorando”.

*bakari è un progetto Meteri nato dal confronto e dalla collaborazione di un vignaiolo, un enologo, un selezionatore, un ristoratore ed un artista.