“Al di là di ogni romantica o filosofica visione, faccio il Passito per sopravvivenza. Ed è questa la parola esatta da usare quando si parla di viticoltura a Pantelleria: sopravvivenza. Il contadino pantesco è in via di estinzione”. Sono le parole di Salvatore Ferrandes, uno dei vignaioli più apprezzati per il Passito di Pantelleria Dop. Chiacchieriamo a lungo per parlare delle difficoltà che sta attraversando l’agricoltura dell’isola, nota per essere la perla nera del Mediterraneo, un luogo unico al mondo con il suo 71 per cento di terrazzamenti e con l’alberello pantesco entrato nelle liste dell’Unesco. Ferrandes risponde con attenzione alle nostre domande; nella sua voce c’è un misto di rassegnazione, quasi gattopardesca, l’orgoglio di essere un baluardo di autenticità e il timore per il futuro. Resta un lieve raggio di ottimismo, forse manifestato come appello ai giovani e alla riconsiderazione del nobile ruolo del lavoro del contadino in un’isola la cui asperità è stata da una parte fortuna, perché l’ha difesa dal turismo di massa, dall’altra causa dell’abbandono per via di un’agricoltura difficile, con molte sfide e scarso reddito.
Ferrandes è erede di una famiglia contadina di origine spagnola, presente sull’isola da oltre seicento anni. Insieme alla moglie Dominica, produce seguendo i principi dell’agricoltura biologica appena 5.000 bottiglie, per circa 2 ettari. Una sola etichetta: il Passito di Pantelleria Dop, con lunghi affinamenti. La sua è un’azienda vinicola fondata nel 1980. E la sua “cantinetta”, come lui stesso la definisce, si trova all’interno di un antico dammuso del 1700. I vigneti invece sono su terreni terrazzati nella parte orientale dell’Isola, profondi con sabbia vulcanica nelle contrade Acquedolci, Khallebi e Mueggen. Il sistema di allevamento utilizzato è, naturalmente, l’alberello pantesco, pratica agricola che è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità.
Se è vero che il vino è il riflesso del pensiero di chi lo produce, qual è quello di Salvatore Ferrandes?
Al di là di quanto si possa dire in maniera più o meno ipocrita, posso affermare che io non faccio il Passito per hobby o filosofia, ma per sopravvivenza. Ho iniziato e cercato nel mio piccolo di soddisfare una mia grande passione: l’uva passa. Dalla quale è nato secondariamente il progetto di fare il Passito. Tutto per me parte dall’uva Zibibbo, il cui nome deriva dalla parola araba zabīb che vuol dire “uva passita”. Nel suo nome c’è il suo destino. Io semplicemente lo assecondo.
Cosa rappresenta o ha rappresentato per l’isola l’uva passa?
In passato l’isola sopravviveva grazie al suo “oro” pantesco. Negli anni 60 si arrivò a produrre circa 65 mila quintali di uva passa, derivata da 350 mila quintali circa di uva fresca; ragion per cui quasi tutta l’uva aveva questa destinazione. Era commercializzata in tutto il bacino del Mediterraneo; decine di motovelieri partivano carichi di cassette di uva passa e di Zibibbo fresco. Tutto questo aveva un senso per noi contadini in mezzo al mare. Poi l’uva passa fu soppiantata dalla sultanina per via dei costi inferiori. Negli anni, finito il boom della “passola”, tutto si è convertito nella produzione di mosto, anche con la nascita di una cooperativa poi fallita. Ma questa è una triste storia. Quando il Passito diventa un prodotto di punta richiesto dal mercato, arrivano anche produttori fuori dall’isola, provenienti da Marsala, strutturati per fare fronte alle ampie richieste. Nel frattempo, da 330 mila quintali di uva prodotta nel 1974 si è giunti ai 15 mila quintali circa di oggi, forse anche meno.
Cosa cambia le sorti della produzione?
La produzione pantesca si intreccia col sociale. È stata investita da una forte crisi agricola. Sappiamo che Pantelleria ad un certo punto viene scoperta dal turismo, e la quasi totalità di terrazzamenti e dammusi sulla costa vengono venduti. In poco tempo arrivano gli investimenti ma non riguardano l’agricoltura. Nonostante l’isola non sia preparata a questo nuovo tsunami, sono anni di grande sviluppo economico, trainato principalmente dall’edilizia.
Da qui il declino della figura del contadino?
Con l’avvento del turismo, la figura del vignaiolo diventa anacronistica. Dagli anni ’70 in poi quei contadini diventati già vecchietti, tiravano avanti a coltivare pur di non vedere persi i loro raccolti, mentre i giovani cominciavano a cambiare il loro destino, dedicandosi alla vendita delle proprietà ai turisti, all’edilizia, ai servizi.
Lei racconta con molta nostalgia…
La disgrazia più grande non è tanto la perdita dei terrazzamenti, seppur di grande importanza perché mantengono il territorio – possono comunque essere ripristinati – quanto la perdita della cultura agricola e delle tecniche di coltivazione specifiche per lo Zibibbo. Qui si fatica davvero, si creano le conche zappando manualmente, per mantenere le viti ad alberello.
Lei in che modo è riuscito a resistere?
Io ho cambiato le cose già con l’atteggiamento, prima producendo uva passa quando non lo faceva più nessuno, poi arrivando al consumatore finale. Ebbi il primo approccio con un grossista di frutta secca di Firenze. Nel 1976 ho fatto le prime prove col Passito, figlio della mia grande passione: l’uva passa. La mia prima annata in bottiglia arriva nel Duemila, 25 anni fa.
Qual è il segreto per ottenere un Passito così buono?
Per me il segreto era ed è la fedeltà alla tradizione; poi si scommette, si fanno prove finché non si arriva alla qualità. Il Passito deve ricordare la sua mamma uva passa, il sole, il caldo, le pietre nere. Poi pian piano ho puntato sulle annate invecchiate.
Lei produce solo Passito di Pantelleria Dop, come mai non ha mai puntato sullo Zibibbo Secco?
Tutti declinano in vario modo lo Zibibbo. Io non mi ritengo un purista, semplicemente non sono un grande fan dello Zibibbo secco. Il Passito ha poco margine tra costi e ricavi, ma voglio restare fedele alla mia scommessa. Semmai negli ultimi anni ho iniziato a mettere in bottiglia Passito di tre annate diverse, uno più giovane di tre anni, uno decennale e qualche altro più vecchio, perché ho percepito, da chi degustava, l’entusiasmo per le sue evoluzioni.
Che caratteristiche ha il suo Passito in evoluzione?
Dopo il primo anno tende ad ossidarsi e, dagli aromi fruttati del primo anno si va verso i terziari che affascinano. Si iniziano a sentire mentolo, tabacco, liquirizia. Se il mio passito somiglia all’uva passa, inevitabilmente rispecchia quell’evoluzione
Abbiamo parlato già del cambiamento economico dell’isola, ma quali sono le difficoltà di qui produce a Pantelleria?
Ora come ora, forza e manodopera. Il fenomeno economico e sociale che ha portato alla conversione al turismo si è aggravato. Al Sud d’Italia c’è ancora un forte retaggio culturale, e qui soprattutto; un atteggiamento di quasi “vergogna” per il mestiere del contadino, basti pensare al senso della frase “Vai a zappare la terra!”, come a dire “se non sai fare altro allora fai quello”. Da noi poi non si lavora con le macchine, se sei un piccolo produttore in vendemmia per pochi giorni non puoi assumere tante persone. Il lavoro agricolo non si cerca, non si vuole. La morte della agricoltura è definitiva, non più in coma. Manca il trasferimento del sapere ai giovani.
Il cambiamento climatico crea altri disagi?
Lo Zibibbo è frutto di un’evoluzione della fascia climatica ma, pur essendo resistente alla siccità, l’anno scorso sono morte parecchie viti, dopo anni di poca pioggia. Quest’anno ha piovuto abbastanza, ma bisogna osservare anno dopo anno. Credo che i cambiamenti ci siano sempre stati e anche l’alternanza tra annate piovose e siccitose. Forse per trarre conclusioni e giudicare bisogna aspettare ancora un bel po’.
Restando fuori dalle polemiche, per lei è vero che senza serre non si fa Passito?
Con questa incertezza climatica, senza le serre è difficile fare passito. L’uva passa ci impiega tanto tempo ad essiccare e se non la difendi e se non la copri marcisce. È impensabile inoltre lavorare un anno e rischiare tutto per un improvviso acquazzone.
E, per fare chiarezza, come spieghiamo la questione delle alte temperature all’interno di queste strutture a prescindere dal modo in cui si intendano chiamare?
Pensiamo che chi tiene alla qualità sia talmente masochista da perderla con le alte temperature? La qualità si potrebbe perdere anche fuori, se si lascia l’uva sui graticci per un mese intero in balia di marciumi, muffe e microtossine. Ci sono tanti sistemi di sana protezione da usare. Ciò che conta è il monitoraggio costante, che è molto più facile se hai piccole quantità da gestire. Faccio un esempio, se raccogli la prima uva e la stendi a fine agosto, nel caso di cambiamenti climatici, agisci prontamente e la ripari entrando i graticci dentro la serra. Se c’è vento, e qui c’è, aprendo consenti la ventilazione e non ci sono situazioni di grande surriscaldamento. Non credo che si facciano cose scriteriate, il problema è che bisogna sapere, conoscere per evitare di creare inutili terrori. In più usare delle strutture per riparare l’uva non comporta nessun cambiamento in termini di quantità perché di Passito ne puoi fare una certa quantità per ettaro. Il disciplinare di produzione consente al massimo 40 ettolitri per ettaro.
Ma secondo lei è possibile una produzione con solo appassimento al sole?
Posso solo dire che io non rischierei di perderei l’uva per un improvviso maltempo buttando all’aria un anno di lavoro.
Per lei, qual è il destino del Passito di Pantelleria?
Resterà sempre una piccola nicchia. Fino a poco tempo fa mi chiamavano “giovane agricoltore”. Oggi siamo in pochi a vivere di Passito e invecchieremo. Sarò forse pessimista ma quello che vedo mi provoca questo. Qui sopravvive bene chi si è dedicato al turismo.
Ci sono problemi di costo e di prezzi, in un mercato che chiede altre tipologie di bevuta?
Il costo è un problema, si vende poco ma c’è anche una forbice enorme tra il produttore e il consumatore. Al consumatore il Passito costa tre volte più di quello che pagano al produttore. Va bene che la qualità si paga ma quanti se la possono premettere? Parliamo però di lavoro artigianale, di cura maniacale dei grappoli, di una lavorazione estrema, monitorata acino per acino. Ecco perché sono consapevole del fatto che con le mie quantità non si va avanti, non a caso compenso con i capperi. Tenterò con un piccolo aumento della produzione.
Qual è il destino di Pantelleria?
L’isola non è agevole da raggiungere e non attira il consumatore che va a passeggio così come fa per le Langhe. Noi qui non siamo lungo le rotte del vino. Quest’isola è selvaggia nello spirito e nell’anima ma questa è pure una fortuna. Qui non c’è il turismo di massa che c’è in altre isole.
Però lei resta un cavallo di razza tra chi produce Passito. Ha smesso di crederci?
No, a 70 anni sogno ancora. Mantengo i contatti diretti con il consumatore che arriva qui, ascolta la mia storia e ciò che faccio e alla fine compra. Questo mi gratifica e mi motiva, dal punto economico e da quello umano. Per i piccoli è la via da seguire. Alla fine, lo stesso turismo che ti ha tolto ti dà, finisce un’economia e ne comincia un’altra. Io sto ancora elaborando il lutto di un territorio tutto coltivato, ma non condanno nulla e nessuno. Il mio sogno da bambino era avere una zappetta in miniatura, sono stato forgiato così, ho i piedi per terra e riconosco la realtà, e così ho riscoperto il Passito e lo riscopro ancora e ancora.