Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Scenari

Gaetano Trovato (Arnolfo ristorante 2 stelle Michelin): “Il fine dining non muore ma è tempo di evoluzione”

23 Febbraio 2025
Gaetano Trovato, chef del ristorante Arnolfo Gaetano Trovato, chef del ristorante Arnolfo

Risorse umane che mancano? Si cominci a parlare di “sostenibilità del lavoro”. Il segreto sta nell’equilibrio…

“Per mantenere l’equilibrio devi muoverti”, diceva Albert Einstein. La metafora della bicicletta veniva usata dal più grande scienziato del Novecento per spiegare la vita. Ed “equilibrio” è proprio la parola chiave usata dallo chef Gaetano Trovato del ristorante Arnolfo nelle colline della Val D’Elsa in Toscana (due stelle Michelin) per spiegarci il segreto di una carriera lunga 40 anni (e non solo).

Un percorso che va proprio immaginato in sella ad una bici, con il ritmo “sostenibile” delle due ruote, a percorrere lunghe distanze, in armonia con sé stessi e con ciò che si vede intorno, continuamente ispirati, attenti a non perdere dettagli, assaporando ogni pedalata tra vento, fatica, sensazioni di tristezza e di felicità, ma con una continua libertà di movimento che ti fa andare sempre avanti ed evolvere. Mentre in molti si chiedono se il fine dining sia morto (qualcuno ne è addirittura certo), lo chef Trovato con voce flemmatica risponde che nulla muore e men che mai il fine dining, per chi ha saputo e sa unire equilibrio, sostenibilità (non solo in cucina), stabilità e progettualità. Stiamo a lungo al telefono per toccare vari temi. Non nega l’aria di mutamento e in qualche caso di “crisi” per l’alta ristorazione, ma ogni cambiamento è sempre una promessa di evoluzione e di crescita, a patto di credere in ciò che si fa e di andare avanti a testa alta, motivati per progettare nuove cose. Nessuna morte, dunque, ma senz’altro un’occasione per riflettere, spiega lo chef che ha ottenuto anche il premio speciale Michelin come Chef Mentor, e che ha attraversato la storia della cucina contemporanea (con due stelle Michelin, la prima nel 1986, e la seconda nel 1997), divenendo il maestro di tanti talenti della ristorazione del nostro Paese. Proprio su giovani non solo come chef ma come autentico “maestro”, ripone incrollabile fiducia. Ecco cosa ci ha detto a proposito di…

Chef negli ultimi mesi si è polemizzato non poco sulla presunta fine del “fine dining”, qual è il suo pensiero?

Le polemiche vanno e vengono, questo è un campo complesso, credo che le crisi siano legate al contesto internazionale. Sono stato a Pechino e c’è aria di crisi, in tutta la Cina in generale. Ma non è così in Francia o a New York. Siamo in un’epoca di profondo cambiamento della ristorazione e questo è il primo passo per partecipare ancor più attivamente alla sua evoluzione. Il fine dining non è morto e non muore. In Italia chi ha lavorato bene, con coerenza e serietà non ha nulla da temere. Anzi sarà ancora più ricercato. Nulla finisce, bisogna però cercare di dare sempre nuove attrazioni e attenzioni. Si va a cena per mangiare, naturalmente, ma se diamo agli ospiti un motivo per tornare, tornano. Il cliente non deve stancarsi e la cena deve essere dinamica, piacevole, con nuove proposte. Giorni fa ho sentito un collega a Milano e si parlava di questo periodo. Milano è un po’ il termometro delle tendenze, della moda. Gennaio e febbraio sono mesi di bassa stagione, più calmi, anche nella città meneghina, quindi è tutto assolutamente normale, non c’è da preoccuparsi. Ma occorrono progettualità e motivazione.

Non è che c’è una sorta di blocco creativo, come se si fosse raschiato il fondo del “tegame”? 

Nelle nuove leve “no” di certo. Oggi nelle creazioni ci sono orientamenti da Nord Europa, da stile spagnolo e asiatico, ma si torna anche alla tradizione; un concetto importante da rendere sempre più attuale. La tradizione va rinnovata, ha tanto da dare, dà sostanza ed è sinonimo di cibo e di concretezza. Mai dimenticare che si va al ristorante per piacere, per appagarsi e non serve stupire a tutti i costi, ricorrendo al ghiaccio che fuma, alle mille istruzioni da impartire su come mangiare, su come prendere il cibo in mano. Per creare servono libertà ma anche sensazioni di concretezza. Un po’ meno teatralità, siamo in cucina non su un palcoscenico e la gente viene per mangiare al ristorante, non per stare a vedere una pièce teatrale.

C’è chi lamenta una sensazione di noia, a volte per percorsi e servizi lunghi. Lei è d’accordo?

Penso che sia vero. Ed è anche vero che i tempi sono difficili da gestire. Non è un caso se le nuove generazioni di chef preferiscono avere meno ospiti, un numero ridotto di tavoli (cinque o sei) per non deludere le aspettative alte del cliente e per non andare in paranoia. Negli ultimi 20 anni si premiano ristoranti con 5/6 tavoli.  Ai miei tempi si gestivano anche 60 coperti. Oggi, un con uno staff come il nostro da 20 persone, puoi fare 20 coperti a pranzo e 30 a cena. La gestione del tempo richiede personale.

A proposito di risorse umane in cucina: sono tutti (o quasi) a caccia di giovani che sembrano non voler fare più questo lavoro. Prima che cominci una nuova stagione, riparte il “brigata mercato”. Da chef e mentore che ne pensa?

Mancano i giovani che vogliono lavorare? Ma questi giovani sono da comprendere. Sfido chiunque con un lavoro stagionale, a lavorare 7 giorni su 7 e con uno stipendio mediocre. Io ho la fila di giovani che chiedono di lavorare per Arnolfo ristorante. Perché? Innanzitutto, si cominci a parlare anche di “sostenibilità del lavoro”. Il mio ristorante resta chiuso due giorni, ci sono i giorni di ferie, i giorni off. Poi in bassa stagione riduco le giornate di lavoro e da 7 ore si passa a 4 ore. I ragazzi hanno premi e sono incentivati, per qualsiasi cosa possa valere un merito, anche il fatto di distinguersi per la pulizia e per la barba fatta ogni giorno. Il futuro è questo, riduciamo i giorni di lavoro, magari aprendo tre giorni a pranzo e 7 su 7 a cena. Premiamo i ragazzi con benefit oltre al compenso che meritano. Va fatto.

In Italia ha fatto notizia la scelta di chi chiude il proprio ristorante stellato a favore di format ristorativo più smart ed economicamente più sostenibile. Lei che ne pensa?

Comprendo l’importanza di offrire anche formule più snelle. Pure noi abbiamo un bistrot, non siamo i soli, con una cucina smart, con un costo più accessibile e che soddisfa una clientela che non ha voglia di intraprendere una serata gourmet. Ma una cosa non esclude l’altra. Credo che ci sia un problema di equilibrio; occorre ottimizzare al meglio i processi lavorativi del ristorante e limitare gli sprechi. Poi nei progetti bisogna crederci, portarli avanti a testa alta. All’ospite bisogna dare certezza, perché chiaramente ha alte aspettative. Io posso testimoniare 40 anni di equilibrio, di stabilità, di continuo movimento. Noi chef dobbiamo trovare il modo per tornare ad emozionarci, creare nuove linfe di cui nutrirci per nutrire, dare vigore al nostro sentire. Faccio un esempio, con l’imminente riapertura post ferie partiremo con un nuovo progetto, un tavolo conviviale per un percorso da 12 portate di 30 grammi ciascuno e che racchiudono i miei 40 anni di carriera, ad un ritmo dinamico tra servizio e cucina.

Facciamo un viaggio nel tempo: la sua prima stella nell’86 e poi la seconda nel ‘99. Cosa è cambiato? 

Erano tempi diversi, le cose sono cambiate, cambiano di continuo. Sicuramente ricordo una qualità più alta dei prodotti anche se oggi interagendo con i giovani agricoltori, che coltivano solo per noi, abbiamo la possibilità di servire alimenti che transitano più dalle celle frigo. Abbiamo alta qualità ma minore continuità; risolviamo sostituendo, per esempio, una materia prima non disponibile con un’altra.  Pensiamo al pesce locale, che può variare giornalmente. Allo stesso tempo, credo che il rapporto con il prodotto locale sia anche il più giusto.

E quali sono invece i cambiamenti in cucina?

La storia della cucina e della sua evoluzione parte dalla famiglia dei Medici. Poi negli anni ’70 e ’80 la Francia ha segnato un percorso rivoluzionario e molte ricette sono state rielaborate avendo come nuovo modello di riferimento chef come Bocuse, i fratelli Troisgros, Chapel. Oggi siamo la penisola più invidiata al mondo per la varietà di produzione. Penso che nel processo evolutivo e nel cambiamento ogni chef deve cogliere l’attimo del proprio territorio e portarlo a tavola in modo creativo, talvolta con delle fusioni ma sempre con un filo conduttore: la sostanza.

Cos’è oggi Arnolfo ristorante?

Un ristorante con una cucina aperta dove tutto è visibile, con un costo del lavoro visibile, con 15 ragazzi. La bellezza del luogo è sicuramente un valore aggiunto, ma non si paga il ristorante perché è bello. Si paga ciò che si percepisce autentico e congruo rispetto al suo costo. Ecco cos’è. Credo che sia un posto che dà molto al cliente.

Chef non possiamo esimerci dal chiederle: ‘E la terza stella’

Ho davanti a me un bel programma. Se lavoriamo così sono contento del mantenimento delle due stelle, la terza è più per gli Arnolfini, per i miei ragazzi che mi seguono. Mai rincorrere la stella, ciò che conta è il giusto proposito per andare avanti ed essere all’altezza. La nostra clientela è giovane e se ci sceglie vuol dire che sappiamo rinnovarci. Questa è una grande soddisfazione.

E se arrivasse invece?

Beh, allora potrei dire di essere il tristellato più anziano d’Italia.