“Crisi? Nessuna crisi”. È perentorio sul tormentone del momento Bruno Petronilli, forse la firma più rampante dell’editoria gastronomica italiana. Uno che timbra il cartellino al ristorante da oltre trent’anni, ma che ultimamente sfodera una novità dopo l’altra: forte del successo ormai consolidato di James, sofisticato magazine in buona parte dedicato al vino, dirige anche la rivista Spirits dedicata ai superalcolici e Orizzonte per Cancelloni Food Service. Ma presto ci sarà l’ennesimo debutto in edicola, in piena controtendenza rispetto alla crisi del giornalismo generalista e specializzato. Almeno su queste pagine, di grafici piangenti non c’è traccia.
Bruno, qual è a tuo giudizio lo stato di salute del fine dining? Ricordiamo che l’ultima notizia riguarda la chiusura di un altro ristorante stellato a Torino, Magorabin…
L’argomento è molto complesso. Non credo possa essere affrontato in modo riduzionistico. È successo che in seguito alla chiusura di una decina di ristoranti, sia uscita una serie di articoli sensazionalistici. Ma a ben guardare si trattava di casi isolati sparsi per tutta la penisola, dovuti a errori nell’impostazione del progetto, che si è rivelato insostenibile per l’incapacità di coprire i costi o di attirare i clienti in una location sbagliata. Se metà dei nostri tre stelle chiudesse nel giro di pochi mesi, allora si potrebbe ben parlare di crisi. Poi ci si può chiedere cosa sia realmente il fine dining, espressione sottile che letteralmente indica posti dove si mangia bene e si gode di una grande esperienza. Ma è un macromondo all’interno del quale ci sono tante sottocategorie, perché esistono trattorie della Madonna che sono a tutti gli effetti fine dining, come il Mirasole, da cui esci col sorriso sulle labbra. L’anno scorso per diverse guide ho mangiato in 150 ristoranti e ho riscontrato alcuni problemi. Mi sono spesso imbattuto in giovani che cucinano più per il proprio ego che per i clienti, proponendo piatti estremi, complicati, rivolti a un piccolo pubblico di esperti. Personalmente dopo tanti anni comincio a essere stanco anche del format del fine dining, non mi va più di restare inchiodato al tavolo per 3 ore con un percorso di degustazione obbligato. Capisco che sia una questione di sostenibilità, perché ci sono vantaggi certi in termini di linea, sprechi, acquisti e programmazione. Ma a volte manca la corrispondenza con il prezzo da pagare. Un altro conto è Alajmo, da cui andrei tutti i mesi perché so che è un genio. Infine c’è il costo, appunto: ormai una stella singola viaggia sui 150 euro, come minimo 180 con il pairing; poi si tratta di arrivarci, a volte serve una camera per dormire e magari sei accompagnato, cosicché facilmente partono 6-700 euro. Può valerne la pena di fronte a un genio, ma non sono così tanti. Allora io preferisco spendere 100 euro alla Langosteria, dove trascorro un’ora e mezzo, posso permettermi una bottiglia di Champagne e mi diverto di più. Credo che oggi per restare sul mercato sia più che mai indispensabile la piacevolezza estrema dell’esperienza, che deve risultare comunicabile, sia essa semplice o complessa. Tutto il resto nel tempo non regge.
L’impressione è quella di una bolla gonfiata dall’hype mediatico, fino alla saturazione del mercato.
Di sicuro l’offerta negli ultimi anni è cresciuta tantissimo, mentre la domanda è rimasta tale e quale oppure si è contratta. Quante sono le persone che oggi possono permettersi queste esperienze sotto il profilo economico e culturale? Pochissime e di fatto in città come Milano si è toccato il tetto. Vanno bene i ristoranti più semplici o specializzati, come gli etnici, mentre alcune chiusure sono fisiologiche. Gli stranieri in generale girano con la Michelin in mano e privilegiano i locali dalla stella e mezzo in su, sapendo che la singola non è garanzia di un’esperienza indimenticabile. Poi certo ci sono Romito e Bottura, che aprono il palato. Ma nella gran parte dei casi, sono necessarie altre attività per stare in piedi. Il pubblico in generale cerca una cucina meno neuronale, invece basta scorrere le carte per constatare la rincorsa all’ingrediente più stravagante, fra un po’ cucineranno anche la pelliccia per farlo strano. Io dico: Uffa! Personalmente mi schiero per un ritorno al classicismo di grande livello, che si sta riprendendo e che adoro. Ho appena visitato a Parigi un ristorante di Ducasse dove ho mangiato benissimo e speso il giusto. Dopo quel pâté della Madonna, sono uscito col sorriso.
Quali modelli intravedi per la ristorazione del futuro?
Credo molto nei giovani. Guardando alla mia regione, l’Umbria, che è quella che conosco meglio, sarebbe assurdo parlare di crisi, visto che il fine dining è stato quasi inesistente per decenni e solo ultimamente sono fioriti nuovi ristoranti di qualità, grazie a cuochi che hanno viaggiato e sono rientrati per cucinare il territorio, pur in mancanza di un forte afflusso turistico. Ed è quello secondo me il futuro: esprimere le materie prime e il gusto classico in una formula sostenibile. Oggi saper cucinare non basta più per pagare gli stipendi: occorre una preparazione di marketing e di gestione dei costi, magari attraverso la figura di un consulente manager, più connaturata ai giovani che agli anziani. Poi intravvedo due modelli. Da una parte c’è Elementi fine dining, il ristorante di Andrea Impero, che operando all’interno di un cinque stelle può permettersi di andare in pareggio o perfino perdere qualcosa, compensando altrove e capitalizzando in visibilità; dall’altra Une di Giulio Gigli, cuoco trentenne che paga le bollette e cerca di risparmiare dove può, proponendo menu degustazione che si rinnovano rapidamente. Certo non è facile, ma anche quello è un modello sostenibile per il quale diventa strategica la comunicazione digitale, che consente alla gente di informarsi facilmente. Resto convinto che i ristoranti d’albergo saranno sempre più importanti, perché all’interno di una grande azienda possono darsi settori a diversa redditività, quello che conta è la media. Poi ormai nessuno fa più ore di macchina dopo due bottiglie, è diventato quasi inevitabile dormire fuori, quindi è un modello vincente.
La critica ha responsabilità in questa situazione?
Sono un critico di quarta generazione e se è vero che in passato ho spinto per la vegetalità e le amarezze, credo sia stato giusto perché c’era bisogno di sostenibilità nell’arco di un percorso lungo. Poi la critica influenza fino a un certo punto. Il gold standard resta la Michelin, anche se nessuno ha ben capito quale sia il suo metodo, che spesso non coincide col giudizio. È vero che il miraggio della stella può portare a investimenti dissennati, che diventano problematici quando il traguardo sfuma, ma come guida fa il suo lavoro in modo eccelso in tutto il mondo. Gli ispettori arrivano in silenzio, pagano e giudicano. Se devo scegliere un locale, preferisco sempre un giudizio professionale al consiglio di uno sconosciuto.
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