Raggiungiamo telefonicamente Alessandro Pipero, patron dell’omonimo ristorante stellato Pipero Roma, nel centralissimo corso Vittorio Emanuele. È in macchina. D’altra parte, è da lì, mentre è in coda nel traffico di Roma, che si diverte a raccontare aneddoti della sua vita professionale e a commentare alcuni fatti. Autoironico, racconta di follie divenute successi e di qualche sberla che gli è servita da lezione. Racconta in modo diretto e, mentre la storiella ha in sé qualcosa di comico, alla fine lui ti domanda (e si domanda): “C’è una morale? Non lo so, credeteci sempre!”. Forse è proprio tutto qui il segreto del suo successo e di quel “rimanere a galla” per usare le sue parole, in un settore tanto bello quanto pieno di insidie: quella capacità di alleggerire, quel non prendersi troppo sul serio facendo sul serio, cadendo per averci provato senza timori e ritornando con grande slancio, sul pezzo. Non a caso, il suo è un esempio raro di self made man, di un cameriere che diventa patron di un ristorante che conquista la stella Michelin. Controcorrente, che piaccia o meno, Pipero ha sempre qualcosa di interessante da dire col suo tipico aplomb romano, che unisce ironia (e autoironia) a una ‘leggera strafottenza’. Lo abbiamo quindi intervistato per conoscere la sua opinione su alcuni temi “caldi”.
Il vino è sotto attacco: salutismo, inflazione, guerre, minaccia di dazi, codice stradale più severo per chi beve troppo e anche la questione dei dealcolati. Ci sono contromisure?
Le polemiche sono tante e il codice stradale fa tanto discutere. Penso però che al netto di tutte le polemiche fatte, ci sia tanta paura ma si tornerà alla normalità. Siamo davanti ad un caso di killeraggio. In realtà dovrebbe prevalere il buon senso e allora non ci sarebbero neppure leggi di questo tipo. I ristoranti ne soffrono, ovviamente, ma il problema riguarda più i super alcolici. Ne risentono di più i colleghi fuori città. Sicuramente tutti i vari attacchi si traducono in meno ordini e meno incassi. Se un cliente mi chiede di portarsi la bottiglia a casa, lo faccio, ma normalmente non accade: chi esce non ha voglia di bere a casa propria. Per quanto riguarda i dealcolati, non sono vini, sono altre bevande. Io sono tradizionalista, amo il vino.
E le ricariche troppo alte sui vini? Non sono diventate un tema sui cui riflettere?
Si ricarica tanto ma abbiamo dato anche troppa importanza al vino. Un po’ da parte nostra e un po’ da parte dell’azienda che vende alcuni vini per renderli introvabili a prezzi elevati e noi siamo lì a subire, e per averli siamo costretti ad acquistare altri vini in gamma. Bisognerebbe essere meno schiavi; ci vuole una diversa strategia di vendita da parte del distributore. Noi ristoratori dobbiamo stare sul pezzo e tenere in carta anche vini più semplici e non blasonati. Ma poi quando li vendi? Bisogna farli girare e svuotare le cantine. Il nodo sta lì.
Le carte dei vini monumentali sono ancora di moda?
Tempistica e passione creano le carte monumentali. Chi ha iniziato tanti anni fa ha annate storiche e vini importanti, ma chi inizia oggi non può costruire carte monumentali.
Come si costruisce una carta dei vini?
Il primo step è restare fedeli all’identità del posto, del menù. Noi siamo trasversali e anche la nostra carta lo è: cosmopolita, con vini di punta e no. Le carte dei vini sono importanti ma col vino si guadagna solo se ragioni.
Il personale di sala di qualità è sempre più una rarità. Come si può affrontare il problema di giovani qualificati nell’assistenza al cliente?
Penso che il problema sia radicato in una sorta di crisi umana e non solo generazionale. Prima per un ragazzo era importante studiare e realizzarsi, oggi ci sono altre priorità come la domenica allo stadio, il viaggio da fare, la fidanzata. Il cambiamento dovrebbe partire anche dalle istituzioni e dal giusto peso da dare alla formazione degli studenti degli Istituti alberghieri.
Lei è stato coraggioso e da cameriere ha aperto un ristorante. Ma la sua è una storia singolare. Non è che forse un cameriere non gode di grandi aspettative nel fare carriera?
Io sono stato folle, chi lavora in sala è più svantaggiato rispetto a un cuoco. I cuochi hanno possibilità di sbocco professionale, altre spinte motivazionali, la stella da ottenere, la critica della stampa, la notorietà mediatica. È la dura legge del goal, insomma, se non segni non vinci. E un cameriere non tira in porta e non fa goal. Che gli torna? I più grandi sommelier e maître, se ci pensiamo, raggiunto l’apice della carriera, se ne vanno a vendere vino o a produrlo, ma il loro percorso professionale in sala non va oltre.
Il fine dining è in crisi? Oppure è una notizia altamente esagerata?
Un po’ si esagera, un po’ è vero e non possiamo fingere che non sia così. Ma il problema non è da imputare al prezzo, al cibo, al piatto fatto bene, piuttosto osserviamo l’ospite: è visibilmente annoiato. Un’esperienza al ristorante diventa un sequestro come se ti trovassi ad un matrimonio. Per mangiare un piatto impieghi pochi minuti, forse uno se sei veloce, e per dieci quindi hai impiegato circa dieci minuti o qualcosa in più. E il resto del tempo? Ecco, nel restante tempo, l’ospite va intrattenuto col servizio. Molti ristoranti hanno un servizio noioso. Serve chimica come in tutti i rapporti. Non dico che si dovrebbe intrattenere come giocolieri, ma serve quella marcia in più di intraprendenza che renda accattivante il tempo tra una portata e un’altra.
Diventare un po’ psicologi?
Senza dubbio. Al cento per cento, occorrono intuizione, empatia e velocità di pensiero,
Il Tavernello in carta, una tua provocazione di qualche anno fa… ce l’ha ancora in carta?
Assolutamente sì. Ne ho venduti 3 in 5 anni, quindi va bene. Il cliente che lo ordina per me è un mito; poi passa ad altre bottiglie.
Si parla anche di calo di consumo dei rossi, di nuovi stili di beva. Per lei è così?
I vini rossi si vendono sempre. Quelli importanti, intendo. Le mode poi esistono, pensiamo ai vini naturali. Oggi ce ne stanno anche di buoni, ma in ogni caso hanno modificato i gusti ed è giusto evolversi, perché si cambia. Certi vini tradizionali non subiscono battute d’arresto e i clienti li scelgono sempre. Quanto ai nuovi stili, non abbiamo più certezze assolute, insomma la nonna di oggi è Michelle Hunziker. Tutto cambia.
Ma lei è più tradizionalista o più contemporaneo?
Il passato può accostarsi alla modernità. Per me la cara vecchia carta carbone può convivere con i social. Del passato salvo molte cose, per esempio la prenotazione per telefono, il rapporto più diretto col cliente, ma i social e la tecnologia se ben usati aiutano.
E in cucina?
Tradizionale o moderno, va bene tutto purché si copi identità. Un genio abbina cose folli, ma se la combinazione funziona non è follia, è genialità.
C’è qualcosa che la rende particolarmente fiero?
Rimanere sempre a galla, il non annoiarmi, il non dovere dimostrare nulla a nessuno, il tornare ogni notte a poggiare la testa sul cuscino e fare sonni tranquilli. Le giornate no capitano poi a tutti.
Chi è il cliente più difficile per lei?
Il fanatico che ha sbagliato posto.