Giuseppe Manna mostra il riso coltivato nei suoi campi di Leonforte (Enna)
di Stefano Gurrera
Aveva quasi le lacrime agli occhi quando con le mani tremanti mostrava la sua prima giumella di chicchi di un riso appena mietuto dai suoi campi. Quegl’occhi erano di Giuseppe Manna e da due anni covava un sogno.
Far “rinascere” sulla “sua terra”, dopo un secolo e forse più, un “Riso siciliano”. Far “rinascere”, perché qui in Sicilia di riso se ne era coltivato molto, e sin dal medioevo. Ma dalla fine dell’800 questo non succedeva più. Per volontà di Cavour. Il riso doveva restar “prerogativa del suo Piemonte” si malignava da queste parti. E Mussolini chiuse definitivamente la partita, qualche decennio dopo, quando ordinò “la bonifica integrale”. Compresa quella del Principe Moncada che sulla piana di Catania possedeva un feudo impiantato a risaia che si perdeva oltre l’orizzonte.
E la “sua terra”, la terra di Giuseppe Manna, seppur non ha quelle dimensioni è un pur sempre florido appezzamento di dieci ettari ubicato in contrada Pirato nell’agro di Leonforte, provincia di Enna, la cui memoria rurale non ha ancora cancellato le tracce genetiche di chi il riso qui lo portarono.
Quegl’Arabi eternamente presenti in ogni storia di Sicilia. Furono proprio loro ad introdurlo per primi in Europa e ad estendere commercio e coltivazioni, sino alla Sicilia. Consentendo e regalando a questo cereale un lungo periodo di prosperità. Qui trovò la culla di quella che sarebbe stata la gastronomia dell’eternità. Che ha mille nomi, zuppe, risotti, timballi, crespelle, arancini, sartù… D’altro canto le zone paludose della Sicilia fornivano allora delle condizioni ambientali ottimali allo sviluppo di questa coltivazione. E non solo nella paludosa Piana di Catania. E la peculiarità della contrada Pirato s’individua proprio nella sua ubicazione, definita ottimale per questa coltura che non può far a meno di una grossa disponibilità di acqua. I terreni sono lambiti dal fiume Criso, da cui, con i dovuti svincoli burocratici, si può attingere acqua tutto l’anno senza commettere reati. E la diga del Lago Nicoletti con acqua a volontà, seppur cara, si trova ad uno schioppo di fucile da questa contrada. Condizione ideali dunque per i potenziali dieci ettari di terreno di proprietà del Manna che si dice disposto a espiantare una buona metà delle coltivazioni a frutteto, fra cachi e la pregiatissima pesca di Leonforte, e reimpiantarla a riso. Un “riso siciliano” che già affascina nella sua definizione. Un “Arborio di Sicilia” che non solo ammalia ma strega.
Il riso prima della raccolta
E’ successo a Carmelo Floridia chef della Locanda Gulfi al quale andrebbe riconosciuta una seconda paternità. Tutto nacque da “una voce dal sen uscita” per dirla con Metastasio. Anzi proprio dalla bocca del Floridia. Davanti a microfoni e telecamere del Tg3. Stava descrivendo una sua ricetta a base di riso: «mi piacerebbe usare solo prodotti della mia terra – il rammarico che gli scappò – ma qui in Sicilia riso non se ne coltiva affatto…”. Una locuzione con l’effetto di un proiettile schizzato da un monitor non da una canna di pistola, mirando dritto a stritolare la fantasia di Giuseppe Manna attratto dal programma e fulminato da un’idea “che fu, ed è, tutto un programma”. E infatti “Coltiverò riso!” fu l’immediata sua reazione. E “tra il dire e il fare – per lui – non ci fu di mezzo alcun mare” anzi solo terra, e ubertosa. Correva l’anno 2009. Due anni dopo, ottobre, pochi giorni fa, la mietitura.
Un momento della mietitura del riso
Modici quintali come ogni prima uscita. E a giorni una trebbiatrice, messa a disposizione dal Cra lo renderà pronto per l’operazione di brillatura che avverrà in Piemonte.
«Una esperienza affascinante – descrive questa storia Giuseppe Manna – nata da una curiosità che ci ha spinto ad operare una ricerca, a scovare ricordi tra gli anziani, a consultare documenti storici appartenenti a casate nobiliari siciliane. E a verificare che quella del riso è stata davvero una coltura molto diffusa in Sicilia. Abbiamo poi cercato di reperire qualche antica varietà coltivata su questi terreni, ma trattandosi di una pianta annuale abbiamo ritenuto che la più idonea fosse quella dell’Arborio e così abbiamo fatto ». Due censori sono pronti per i primi test. A Carmelo Floridia si affiancherà “a distanza” anche l’altro celebrato chef siciliano Carmelo Chiaramonte e saranno i primi a battezzare le nuove ricette “…al riso di Sicilia” che compariranno presto, e per primi, tra i menu dei ristoranti siciliani.
Di questo nuovo lieto evento ne sarà contento anche quell’anonimo chef girgentino che voleva omologare gli “Arancini di Adelina”, quelli che rispettano rigorosamente la ricetta descritta da Andrea Camilleri nel quasi omonimo romanzo “Gli arancini di Montalbano”. Per poi ottenere il riconoscimento della Denominazione di origine protetta. Idea subito abbandonata perché mancava il presupposto fondamentale: che vi sia “la certificazione che la provenienza del riso sia dalla Sicilia …”. Ma presto ci sarà. Chissà che non nasca un’altra bella storia da questa storia altrettanto bella. E questa volta… senza gli Arabi.
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Le foto sono di Vincenzo Camiolo