Piero Antinori ha scritto un libro: «Il Profumo del Chianti» (216 pagine, 18,50 euro, Mondadori editore) che è la storia della sua vita, della sua famiglia, dell’amore infinito per il vino. Un volume ricco di riflessioni, aneddoti e spunti per tutti. Una lezione di vita, dove i capitoli portano il nome di alcune delle etichette più famose della sua rinomata azienda. Qui di seguito ne pubblichiamo uno stralcio tratto dal capitolo Solaia».
F. C.
Credo che il buon vinattiere debba fare un lavoro psicologico su se stesso, affrontando con fermezza i fallimenti, usando i passati successi come riserve di fiducia, accettando con serenità gli aspetti del suo lavoro che non può controllare. La previdenza ti fa mantenere sempre in cantina del vino, e un minimo di risorse economiche, già «stoccati», con istinto da buon fattore, per intervenire quando l’annata è stata debole, l’estate arida, l’inverno severo o magro il mercato. La prudenza ti fa rimanere un saggio contadino anche quando i tuoi campi sono sparsi su tre diversi continenti, quando occorre uno sguardo d’insieme su tutte le tue vigne per puntare ora sull’una ora sull’altra in base alla situazione che cambia. La lungimiranza ti fa tenere sempre pronto un piano B.
In un piovosissimo 2002, a Tignanello ci ritrovammo, al momento della vendemmia, con gran parte dei grappoli non ancora maturi e quasi marciti sui tralci. Cosa fa in questi casi il produttore di vini di qualità? Semplice: salta un’annata. Gran parte dell’uva, in particolare il nostro amato Sangiovese, vitigno tardivo, sensibile all’umido, non fu utilizzata.
Producemmo però un Solaia «Annata diversa», come si dice in gergo tecnico, puntando su uve Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc. Gli esperti lo descrissero poi come un vino «intenso, ricco di profumi ed elegante», pur essendo nato quasi per caso. Rimane il fatto che in quell’anno, come del resto nel 1992, altra annata insalubre e maledetta, fummo gli unici a decidere di non imbottigliare le «stelle» del nostro catalogo, nonostante il danno economico. Niente Tignanello, niente Guado al Tasso in quel di Bolgheri, niente Chianti Classico Riserva. Lo stesso 2011 ha visto, a pensarci bene, una primavera strana, con un inizio aprile delle temperature elevate che si è andato poi improvvisamente raffreddando. Un’annata inconsueta, in bilico: il caldo ha aperto i germogli, il freddo sulle gettate li ha fermati. Ma alla fine, anche se lo sapremo solo nel 2013, potrebbe uscirne un grande vino.
Quanto alle incognite del mercato, basterebbe parlare di quella grandinata a cielo sereno, inaspettata nella sua ampiezza e durata, che è la crisi economica degli ultimi anni, arrivata dall’America come la fillossera e oggi ancora avvertita in tutto il mondo. Nella mia esperienza la chiamo la «legge del dieci»: anche se contrattempi e ritardi non mancano mai, i veri e propri guai si verificano circa una volta a decennio. E non parlo solo di una grandine fuori stagione.
Un infortunio molto più grave di un’estate troppo umida furono, poco dopo il mio incarico di responsabile dell’azienda nel 1966, un paio di acquisti rivelatisi poi decisamente avventati. Nel primo caso guardammo al Nordest. I nostri importatori negli Stati Uniti ci avevano più volte segnalato che cresceva la richiesta di vini veneti. In particolar modo Soave e Valpolicella. Il bianco Soave della famiglia Bolla era diventato una specie di status symbol adorato dalle star hollywoodiane. Si diceva che Frank Sinatra, massimo astro italoamericano di sempre, rinunciasse a mangiare se non ne trovava una bottiglia pronta, alla giusta temperatura, al proprio tavolo. Decisi così di acquistare l’azienda Santi che, nel veronese, lavorava da sempre con il Soave, il Valpolicella e l’Amaraone. Una decisione pressa di getto. Ma ci volle poco a capire l’errore.
I loro vigneti e un po’ tutte le loro strutture erano allora in precarie condizioni. Ricordo che dovevo recarmi lassù almeno una volta ogni quindici giorni per verificare come procedesse il recupero della tenuta. Dovetti confrontarmi più volte con il vecchio proprietario, cui al tempo, a mio parere, mancavano soprattutto la sincera dedizione e la passione necessarie al nuovo, difficile mercato del vino. Ricordo ancora che dovetti mettere a seguire il progetto un esperto che conoscevo da tempo, Paolo Perissinotto, un grande personaggio, innamorato del vino. Fu l’unica nota positiva di quel periodo affannoso.
Negli anni precedenti, come responsabile commerciale dell’Azienda Santa Margherita, Perissinotto aveva dato vita dal nulla al fenomeno del Pinot Grigio, allora un banale bianco, con un’intuizione geniale: usare per le uve «ramate» del Triveneto le stesse tecniche di vinificazione dei bianchi classici. Se non trovate il suo nome scritto in lettere d’oro sui libri di storia dell’enologia è solo perché fu sempre una persona schiva e modesta. Per questo, forse, mi piaceva. E mi piace oggi ricordarlo qui. Nemmeno lui, comunque. riuscì a risollevare l’azienda, e in breve la Santi divenne praticamente solo un peso per noi, un buco nero dove finivano molte delle nostre risorse e delle nostre non infinite energie. (…)
Le mode del vino cambiano, si evolvono, si spengono veloci. Penso a quel boom della barrique che sarà poi così importante per noi, le botticelle di rovere prima osteggiate, poi considerate una specie di anfora miracolosa dove il vino mediocre poteva diventare nobile come alle nozze di Cana. O penso alla febbre del Novello, il vino nato da una particolare fermentazione dei grappoli, fresco, instabile e da consumare subito: ispirato al Beaujolais Nouveau francese, per qualche anno non si è disquisito d’altro. E non fatemi parlare del vino frizzante alla spina…
Sono svolte improvvise nel gusto che possono vanificare in poco tempo anni di investimenti. Come prevedere la prossima ondata? Diciamo che, così come la vite deve interagire con il microclima, la troposfera e il paesaggio, l’imprenditore di un prodotto di qualità deve essere pienamente inserito nella società, nel mondo degli uomini.
Bisogna viaggiare, informarsi, parlare con la gente, essere sempre aggiornati su ogni novità. Bisogna, in definitiva, essere interessati, stimolati da tutto ciò che gira intorno alla nostra attività. E bisogna amare il vino. Un viticoltore che non beve ogni giorno con piacere un bicchiere, che non passa in rassegna con frequenza, dalla trattoria dietro l’angolo all’enoteca del grand hotel, ciò che esce dalle altre cantine, è come lo chef che non assaggia mai i suoi piatti e non va per ristoranti e mercati: mai fidarsi di un cuoco magro! Devi essere insieme produttore e consumatore innamorato; anno dopo anno, questo permette di entrare in sintonia con il mercato, con il sentire comune. Ogni epoca ha il suo concetto di vino buono. Si tratta solo di capire quale. Quello che posso dire è che sulle tavole di divi hollywoodiani come Tom Cruise o Robert De niro, che fanno tanto sognare il pubblico, o di personaggi come Francis Ford Coppola (tanto appassionato di vini da essere diventato poi anche lui un produttore nella Napa Valley) oggi non c’è più il Soave. Ci sono il nostro Solaia o il nostro Tignanello.