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Birra della settimana

Birra, la sfida al bollito con pearà: quando il gioco si fa durissimo…

15 Dicembre 2024
Bollito con pearà Bollito con pearà
Bollito e pearà. Un’espressione che ha in sé l’armonia metrica e musicale tipica della cadenza veneta. Basta provare ad ascoltare, con la mente, quelle tre parole pronunciate da una voce del nord-est (le sentite? Facile immaginarle, no?); meglio ancora, se a proferirle sia una massaia del Veronese: ché la ricetta proprio in quel territorio trova la propria origine. Ebbene, tanto è suadente il suo suono, tanto è una roba seria mettersi lì e scofanarsene una porzione. Perché il piatto di cui parliamo oggi, provandone le possibilità di abbinamento con la birra, è veramente un pieno di sostanza e di energia.
PEARÀ: UN NOME, UNA STORIA 
Anzitutto il significato: la pearà è una salsa; e il suo nome significa pepata. Un battesimo che allude, semplice semplice, a uno degli ingredienti cardine della sua preparazione: il pepe nero, appunto. Si tratta di un condimento – per tradizione associato a portate di bollito misto, specialmente nelle domeniche e nelle feste invernali – appartenente al repertorio del costume contadino e, in generale, alla cosiddetta cucina povera. La sua origine, ignota in termini di rigorosa ricerca storica, è affidata a una dimensione che sta fra storia e leggenda. In base a questa narrazione, si dice che risalga addirittura all’epopea longobarda: e in particolare a un’intuizione dovuta al cuoco del re Alboino. Il cuciniere di corte avrebbe infatti avuto il compito di imbandire un pasto che fosse in grado di restituire forza alla regina Rosmunda; la quale, costretta con la forza a sposare il sovrano, si stava lasciando morire di fame, dopo aver subito un tremendo trauma emotivo: l’obbligo di bere dal cranio, trasformato in coppa, di suo padre Cunimondo, capo dei Gepidi e ucciso in battaglia per mano dello stesso Alboino.
LA RICETTA
Insomma, abbiamo a che fare con un piatto – potremmo dire, adattando il noto adagio paraproverbiale – capace davvero di far resuscitare anche i quasi morti. Quale il suo segreto? Nessuno in realtà: se non l’avvalersi di ingredienti dal vigoroso potere nutrizionale. Da un lato, infatti, la nostra salsa si accompagna per consuetudine a carni piuttosto dotate in grassi: ad esempio la lingua di manzo o la copertina (taglio situato nella parte interna della scapola bovina); la gallina o il cappone intero; e, in tempi più recenti, anche il cotechino. Ma a prescindere dai proprio compagni di impiattamento, la pearà è già assai ricca di per sé. La base della ricetta è rappresentata da una generosa dose di pane raffermo grattugiato al quale si aggiunge, ben caldo, del midollo di bue (freschissimo), precedentemente estratto dall’osso, sciolto su fuoco basso e passato al colino, onde rimuoverne le impurità. Amalgamato il composto con un mestolo in legno, vi si riversa del brodo di carne e lo si tiene, ancora sulla fiamma basa, per due ore almeno, salando via via all’occorrenza, per poi rifinire (tocco conclusivo) con un’immancabile spolverata di pepe.
IL PROFILO SENSORIALE
Il piatto, pur nell’ovvia disomogeneità tra pearà e bolliti, presenta alcuni caratteri sensoriali salienti. Una consistenza complessiva tendenzialmente tenera; una densità sensoriale al contrario alquanto elevata; un equipaggiamento sostanzioso in termini di materia sia amidacea sia lipidica (il midollo bovino, da solo, ne conta un 84% sulla rispettiva massa); una piattaforma olfattiva ti tipo prevalentemente tostato (derivante dai processi di cottura a carico di carboidrati, proteine e grassi); una propensione gustativa in cui il fondo di tipo dolce (dovuto al pane e, di nuovo, ai grassi in circolo), s’intreccia da un lato con un’incisiva corrente di sapidità (corrispondente tra l’altro all’umami tipico, ancora, del midollo) e dall’altro con una ragguardevole dose di piccantezza. In abbinamento con la birra, cerchiamo dunque tipologie di perentoria personalità organolettica, dal profumo al loro volta tostato, dalla propensione gustativa rotonda (sicuramente scansando un amaro troppo pronunciato) e dalla buona capacità di gestione del filamento lipidico-carboidratico (quindi adeguati parametri di acidità, carbonazione e alcolicità, singolarmente o in combinazione con gli altri). Tradotto in termini concreti? Ecco di seguito tre possibili risposte.
CON LA DUNKLES BOCK
Si comincia volando subito alto, in termini di stazza etilica. La prima convocazione è infatti per la “Lyn”: una Dunkles Bock da 6.8 gradi targata “South Soul Brewery” (a Francolise, in provincia di Caserta), introdotta da una mescita il cui caldo colore ramato, percorso da lievi velature, trova coronamento in una bella torretta di schiuma nocciola. Una birra dotata di profumi (richiamanti temi quali biscotto e caramello) che rispondono ai requisiti aromatici poc’anzi descritti; mentre il suo combinato tra bollicina e slancio alcolico lavora a dovere le densità carboidratiche e grasse del piatto. Il tutto a supportare l’efficacia di una bevuta che, con la sua abboccatura, accarezza per il verso del pelo (secondo le migliori aspettative) le affilatezze sapido-piccanti del boccone.
CON LA WEIZENBOCK 
Con il secondo round saliamo, nel bicchiere, di due decimali alcolici, ma soprattutto di carbonazione: ché sul ring chiamiamo a salire una Weizenbock. Quella di casa “Andechs” (marchio monastico benedettino bavarese situato nell’omonima località, una ventina di chilometri a sud-ovest di Monaco), etichettata senza nome d’arte e riferendo la sola appartenenza tipologica. Caratterizzata da un colore dorato intenso, da profonde velature e da un rigoglioso monticello di schiuma bianca, la birra diffonde profumi di miele, pastafrolla, banana e chiodo di garofano forse meno speculari rispetto alle tostature del piatto; ma di certo non viene meno alla regola della rinuncia all’amaro, mettendo anzi in campo una percorrenza dolceacidula decisamente armonica nell’incontro con le incursioni sapido-piccanti della pietanza. Infine, appunto per la sua acidulità, ma anche soprattutto per la sua vivace effervescenza unita a una gittata etilica pari all’8%, la sorsata assolve con una disinvoltura decisamente il compito di massaggiare e sciogliere la pur ponderosa massa grassa e amidacea della pearà.
CON LA TRIPEL 
Rimaniamo sugli 8 gradi alcolici, ma cambiando genere birrario. Protagonista del terzo abbinamento è infatti la “Durada” della scuderia “Du Lac”, a Galbiate (Lecco): una Tripel ambrata (dalla trama omogeneamente velata e dalla fitta schiuma avorio), la cui ricetta prevede aggiunte quali miele di tiglio, coriandolo, cardamomo e pepe rosa. Qui l’olfatto del bicchiere intriga: perché alla tostature (pasta frolla, biscotto) aggiunge un piglio – appunto – pepato che richiama, della salsa, proprio l’ingrediente che le dà il nome, pearà. Per il resto, di nuovo, la somma di slancio etilico e bollicina arrembante svolge, sui fianchi delle pastosità grasse e amidacee del boccone, la stessa efficace opera di fluidificazione registrata con la Weizenbock. Infine, se è vero che la chiusura della bevuta riserva un leggero acuto di timbro amaricante, lo è altrettanto che le prevalenti dolcezze del piatto evitano, nell’incrocio con le proprie sapidità e le proprie piccantezze, esiti significativamente conflittuali…
SOUTH SOUL BREWERY
Via Per, 3a traversa via Brezza, snc – Francolise (Caserta)
T. 320 5635546
info@southsoul.it
www.southsoul.it
KLOSTERBRAUEREI ANDECHS
Bergstrasse, 2 – Andechs (Baviera, Germania)
T. 0049 (0)8152 3760
info@andechs.de
www.@andechs.de
BIRRIFICIO DU LAC
Via delle Bazzone, 2/A – Galbiate (Lecco)
t. 333 6179800; 0341 540711
info@birradulac.it
www.birradulac.it